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Film destinato a provocare
ampi dibattiti e discussioni,
prediletto dai tutori
di un cinema che si
lorda in funzione
della sua comunicativa
(ma allora perchè
i giurati hanno ignorato
la Bigelow? Non certo
per le stesse ragioni)
"The wrestler"
forse sbancherà
ai botteghini o deluderà
il pubblico, ma non
è questo quello
che conta. "The
wrestler" - storia
di appassionanti e
violentissimi incontri
sui ring dello sport
più amato e
pacchiano del mondo,
è diretto da
uno spirito visionario
e (già di per
sè) inquietante
come il regista Darren
Anorofsky. Il tema
del fallimento e della
distruzione fisica
aveva in qualche modo
già caratterizzato
il cineasta fin dal
suo primo film, passando
per l'indispensabile
e spaventoso "Requiem
for a dream",
senza contare il meno
persuasivo "The
fountain (cfr. l'albero
della vita nella traduzione
italiana)", distrutto
- forse |
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troppo
definitivamente
- dalla
critica.
E visto
che
siamo
in tema
di riscatto,
ecco
"The
wrestler",
cupissimo
ritratto
del
lottatore
Ram,
l'Ariete
(soprannome
di Randy
Robinson),
che
a vent'anni
dalle
glorie
passate
si trova
a combattere
per
incontri
sempre
più
deleteri
e scorretti,
fino
a quando
si becca
un infarto.
Il medico
lo sconsiglia
di ritornare
nel
ring
e Randy
decide
di seguire
il consiglio
della
spogliarellista
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che ama (Marisa
Tomei), e
di riavvicinarsi
alla figlia.
Ma il tentativo
- a causa
di un'appuntamento
mancato -
fallisce,
e allora Randy
decide che
la sua vita,
fino alla
morte, è
sul ring,
perchè
"al mondo
- fuori dal
ring - non
interessa
un cazzo di
me" cfr.).
Leone d'Oro
alla 65esima
mostra del
cinema di
Venezia, a
differenza
di ben altri
pronostici
(Bigelow,
Miyazaki,
Demme, etc.),
"The
wrestler"
ha tutte le
caratteristiche
del film di
massa, ma
imprevedibilmente
è difficile
da giudicare.
Troveremo
- nel suo
campo - tante
persone disposte
a confrontarlo
con i blockbusters
o la spettacolarizzazione
Iconografica
à la
Rocky, ma
in realtà
è ben
diverso. Per
la prima volta,
perlomeno
in modo tanto
definitivo,
il cinema
rende "eroica"
l'impresa
teutonica
di un guerriero
stanco e fallito,
mettendo in
mostra l'annientamento
fisico come
forma di rivincita
dall'annientamento
morale. Il
film di Anorofsky
sembra dirci
che esiste
qualcosa che
fa più
male delle
botte e dei
colpi di mazza
che colpiscono
continuamente
il corpo massiccio
e riciclato
di Randy:
la tempesta
morale del
rifiuto, la
sensazione
di vivere
in una dimensione
diversa dalla
realtà
(cfr. quando
Randy lavora
nei supermarket,
una parentesi
falsamente
ironica, e
in realtà
quasi tragica),
l'abnegazione
di un mondo
che non vuole
saperne di
avere Randy
tra i suoi
simili (?)
- anche se
lo vediamo
ridere e scherzare
con dei ragazzini
- diventa
lo strumento
per cui lo
spettatore
è portato
a pensare
all'esperienza
personale
di Rourke
(proprio vent'anni
fa combatteva
i suoi ultimi
incontri,
prima di un
lungo declino)
senza riflettere
più
di tanto sulla
morte morale
della vita
stessa. In
questo senso
Ram è
l'ultimo dei
losers, e
il più
vincente di
tutti: un
energumeno
afasico, un
"prodotto"
da Playmobil
per le masse,
ora ridicolo
ora glorioso,
l'identikid
dell'uomo
che - come
vorrebbero
gli spettatori
- arriva a
sfidare la
vita e la
morte pur
di soddisfarli.
Ram è
una parte
di noi che
non riusciamo
ad ammettere:
il miraggio
di libertà
diventa una
barriera entro
la quale l'unico
atto di sopravvivenza
è l'annientamento
dei ring.
Molto si è
detto della
prova di Rourke,
ma non abbastanza:
se può
essere discubile
il film quando
affronta il
rapporto con
la figlia
(ma mai scontato
e furbo, contrariamente
a quanto si
creda) la
"verità"
raccontata
da Ram-Randy
nel suo ultimo
- forse fatale
- ring sembra
esattamente
quella che
noi ammiratori
ci aspettiamo.
Qualcuno potrà
azzardare
paragoni con
i dimenticati
"Johnny
Handsome"
e "Homeboy",
ma l'uomo
che abbiamo
davanti è
soprattutto
l'attore che
mette in discussione
tutto se stesso,
senza celare
alcuna maschera
espressiva
che lo riporti
a quand'era
Idolo di un
certo potere
seduttivo
(primi, glamourosissimi
anni ottanta).
Capelli ossigenati
alla Hulk
Hogan, muscoli
e operazioni
chirurgico-facciale
che neanche
Micheal Jackson,
il Randy Robinson
di Rourke
è l'ultimo
(anti-)eroe
di un universo
- fantasma,
e - a tratti
- la pantonima
virtuale di
una comunicativa
linguistica
e corporale
plasmata nella
sua falsità.
Un vizio degenere
che sfuma
tra le note
del Boss (o
del metal
anni ottanta
più
cazzaro e
tamarro?)
mentre ci
ritroviamo
un film che
racconta -
per dirla
alla Ruiz
- "due
vite e una
sola morte".
(di Luca
D'Antiga
)
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