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Una squadra dell’FBI
si reca in Arabia
Saudita dopo un tremendo
attentato terroristico
avvenuto in una colonia
americana a Ryhad.
Qui, il team di investigatori
cercherà di
scoprire e stanare
i responsabili della
strage. The kingdom.
Il regno. Che non
è quello di
Lars von Trier, bensì
quello costruito dai
sauditi nel 1932,
come ci spiegano i
mirabolanti titoli
di testa di “The
kingdom”, computerizzati,
iper-veloci ed enormemente
semplicistici, fino
ad un suggestivo,
per quanto creativo,
effetto finale che
collega il conflitto
petrolifero USA-Arabia
alla tragedia dell’“11
settembre”.
Il regno saudita,
scopriamo dal film,
è intrecciato
alla scoperta di numerosi
giacimenti di oro
nero e inscindibilmente
legato alla presenza
americana su suolo
arabo. Con un sorprendente
gusto per l’approssimazione,
però, siffatta
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presenza
è
mostrata
come
una
pacifica
contrattazione
tra
consumatore
e produttore
e non
come
una
subdola
invasione
e controllo
del
territorio,
piena
di lati
oscuri
e di
atti
illeciti,
perché
in violazione
di svariate
norme
di diritto
internazionale,
commessi
da parte
dell’esercito
e delle
agenzie
governative
statunitensi.
A quanto
pare,
la diatriba
con
Bin
Laden
nascerebbe
dal
fatto
che
questi
è
stato
battuto
sul
tempo
per
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la difesa
del Kuwait
contro Saddam
Hussein nel
1991. Tutto
qui. Da queste
premesse e
da un attentato
– ben
ricostruito
da un punto
di vista filmico
e ispirato
ad un fatto
realmente
avvenuto in
Arabia Saudita,
nel 1996 –
si dipana
l’intreccio
del film:
un’indagine
per scoprire
e punire i
colpevoli
dell’eccidio,
un giallo
da risolvere,
dall’FBI.
Ma l’indagine,
come qualsiasi
intervento
militare in
Arabia, è
osteggiato
dai politici,
dalle alte
sfere del
potere che
vorrebbero
la diplomazia
e optano per
la prudenza.
Strana interpretazione,
poiché
nella realtà
accade il
contrario,
visto che
il governo
americano
non dimostra
alcuna reticenza
ad usare la
rappresaglia,
o comunque
la forza,
contro i propri
nemici, in
special modo
quando è
giustificato
da un attacco
terroristico.
E così
l’indagine,
segreta e
condotta su
una terra
ostile e difficile,
si trasforma
in una vendetta,
bella e buona,
ma giustificata
dalla necessità
di sgominare
i cattivi,
come emerge
dalle stucchevoli
e retoriche
conversazioni
tra Ronald
Fleury, il
personaggio
interpretato
da Fox (bravo
come sempre,
ma estremamente
antipatico),
e il figlio.
Un’azione
chirurgica
e veloce,
per scoprire,
stanare ed
eliminare
chi ha ucciso
due agenti
americani,
fra cui un
amico di Fleury,
e dare una
nuova e inutile
ripulita nel
mondo arabo.
Questo è
presentato
secondo i
soliti stereotipi
e non fatevi
ingannare
dalle scene
centrali,
in cui una
musica di
sottofondo
vuole commuovervi,
mettendovi
di fronte
alle vicinanze
tra occidente
e islam, mostrando
quadretti
familiari
e momenti
di vita pacifica,
perché
dietro tutto
questo si
nasconde una
propaganda
subdola, che
lega inscindibilmente
la fede in
Allah, forte
e radicata
com’è
noto, agli
atti terroristici,
rendendo indefinito
e inconvertibile
il nemico:
ogni musulmano
può
essere un
dinamitardo
e non c’è
modo di far
cambiare idea
a chi ha già
deciso per
la Jihad.
Niente di
più
falso e pernicioso.
E così
vendetta sia,
violenta,
implacabile
vendetta.
Peter Berg,
prodotto da
Michael Mann
(che amarezza),
realizza un
film gretto
e pericoloso,
ideologizzato
dal primo
all’ultimo
minuto, denso
di retorica
e di luoghi
comuni, girato
con perizia,
ma con troppi
primi piani
ed un uso
compiaciuto
e sadicamente
politico della
violenza.
Un film che,
con troppa
camera mobile
e troppe scene
d’azione,
mette a disagio,
irrita e stanca.
(recensione
di Dario
Bevilacqua
)
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