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recensione the international
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Presentato in apertura all'ultimo Festival di Berlino, "The International" è l'ultimo lungometraggio del tedesco Tom Tykwer ("Lola corre", "Heaven", fino al recente e scarsamente riuscito "Il Profumo"), il terzo in inglese. Da Berlino a Milano, da New York a Istanbul, passando per il piccolo ma cruciale Lussemburgo, sono tanti e diversi gli scenari, così come gli spunti narrativi che s'intersecano, s'incrociano e si aggrovigliano nell'arco di due ore che filano lisce e senza particolari intoppi. A conferma della sua grande versatilità, questa volta Tykwer sceglie una storia di spionaggio 'pura e semplice' (la sceneggiatura originale è di Eric Warren Singer), che vede protagonisti un agente dell'Interpol (Clive Owen) e l'assistente del procuratore distrettuale di Manhattan (Naomi Watts), coinvolti in un'indagine su una delle banche più |
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potenti al mondo, la
IBBC. Il vero valore del conflitto sta nel debito che produce, e se si controlla il debito si controlla tutto: ecco perché per la banca è importante stendere in maniera tentacolare il proprio dominio, ma soprattutto ecco perché è importante fermarla. In un momento storico dove si guarda al proprio benessere a discapito del vicino, ecco che cade il concetto di nazione conquistato in quel tempo |
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lontano delle rivoluzioni, e l'internazionalità degli interessi abbatte i confini - e i limiti tra ciò che è lecito e ciò che non lo è. Così l'agente Salinger (Owen) sembra quasi un cavaliere errante, che forte dei propri ideali si muove (quasi) da solo contro un mostro bancario disposto a qualsiasi cosa per portare a termine i propri obiettivi. A voler fare le pulci a questo film, le pecche fondamentali sono da ricercare nella scarsa plausibilità di alcuni passaggi narrativi - l'uomo singolo contro le forze internazionali, il voler spiegare 'troppo' - che rendono la pellicola a tratti ingenua, soprattutto se messa a confronto con altre dello stesso genere (vedi "Syriana"). D'altra parte, vero punto di forza è la regia: l'ottima gestione degli spazi, i cambi di prospettiva, l'enfatizzazione di particolari grazie al sonoro conferiscono alla pellicola un taglio preciso e riconoscibile. C'è tanta carne messa al fuoco, questo sicuramente, ma il ritmo alto mantiene costante l'attenzione dello spettatore, per un film 'di genere' da vedere. E per avvicinarsi, magari, a uno dei registi più interessanti e poliedrici della sua generazione, purtroppo non molto conosciuto.
(di Giulia
Mazza )
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