THE HURT LOCKER
 
locandina The hurt locker

recensione The hurt locker

 
Le guerre saranno anche tutte diverse ma al cinema sembrano tutte uguali. Cinepresa a mano, marines in mimetica, paesaggi polverosi, mitragliatrici che sparano, corpi dilaniati, uomini in lacrime. In “The hurt locker” la regista culto Katryn Bigelow ha il merito di focalizzare il suo obiettivo su una parte di spazio molto circoscritta, nella fattispecie quella occupata da un artificiere e la sua squadra, adottando un punto di vista (molto) interno – quello attraverso la visiera del pesante casco del protagonista – raccontando così una storia di guerra e non la Guerra, espediente che le consente nello stesso tempo di limitare al minimo ogni enfasi retorica. Non ci sono nemici, l’orizzonte degli eventi è ristretto, la questione sembra essere tutta personale, meccanica, riconducibile ad un lavoro da svolgere. Ma se questo le fa guadagna-  
 
re un punto gliene fa perdere contemporaneamente un altro. Perché come dobbiamo giudicare allora l’iscrizione che apre il film, “la furia della battaglia provoca dipendenza totale, perché la guerra è una droga”? Come concetto assoluto o solo individuale? Perché se è vero il primo caso allora rimane tutto da dimostrare (“The hurt locker” racconta una storia di guerra o la Guerra?). Se è vero il   recensione The hurt locker
secondo ci sembra onestamente poco interessante. Da qualunque parte lo si maneggi il materiale bellico presenta dei pro e dei contro. Forse nessun genere si presenta tanto allettante per chi deve fare un film, consente tutto senza compiere grandi sforzi di scrittura. Contiene già in sé l’azione, il dramma, la denuncia, l’impegno. Ma nell’impegno e nella denuncia l’ “edonismo” cinematografico (il celeberrimo carrello di “Kapò”) cede sempre all’ipocrisia che mai impedisce di indugiare sulla spettacolarizzazione e l’eroismo del soldato di turno (qualcuno ricorda Eric Bana in “Black Hawk Dawn”?) che con atteggiamento smargiasso di esclusiva proprietà yankee arriva al cospetto di un auto imbottita di tritolo, disinnesca la bomba tagliando due cavi, sputa improperi, mette in pericolo i suoi compagni disobbedendo agli ordini, si dimentica i guanti che va a riprendere fischiettando, torna, si stende sulla jeep insensibile alle proteste altrui, getta l’elmetto e si accenda una sigaretta come se avesse appena tagliato l’erba del giardino di casa. “The Hurt Loker” perde ulteriori punti se si aggiungono alcune lungaggini che pur funzionali ai fini registici per mostrarci la quotidianità della vita marziale spezzano il ritmo della narrazione creando tempi morti, alcune sequenze inizialmente cariche di tensione poi però tendenti alla ripetitività sempre uguale e alcuni personaggi stereotipati connessi al genere, vedi il soldato in crisi di nervi o lo psicologo del campo che in quanto psicologo e quindi letterato e quindi contrario per definizione alla violenza cerca il dialogo anche coi sassi e infatti muore da fesso. Attendiamo “Tropic Thunder” che di questi stereotipi si farà gioco. Camei per Guy Pearce, David Morse e Ralph Fiennes. Eccellente Jeremy Renner.



(di Mirko Nottoli )


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