THE BRIDGE
 

recensione the bridge

 
Ci si alza dalla poltrona del cinema con un senso di smarrimento dopo aver assistito alla proiezione di “The Bridge”, un documentario di indubbio impatto emotivo che si segue con attenzione ma che riempie di incertezze circa la legittimità stessa dell’operazione che il regista Eric Steel ha realizzato. Si tratta della documentazione cinematografica, realizzata lungo l’arco di un anno, il 2004, di una serie di suicidi compiuti gettandosi dal Golden Gate Bridge, il ponte che collega San Francisco alla Marin county, all’imboccatura della baia dove la città californiana si affaccia sull’Oceano Pacifico. Steel ha piazzato alcune telecamere in posizioni strategiche per riprendere ciò che avveniva sul ponte durante il giorno. Gli operatori non dovevano far altro che cambiare le cassette ogni ora e compiere qualche zoomata sulle perso-  
 
ne che davano segni che potevano far pensare a un gesto estremo. In questo caso si mettevano in contatto via telefono con gli addetti alla sicurezza del ponte, i quali quando potevano cercavano di salvare gli aspiranti suicidi. Si assiste infatti anche ad alcuni salvataggi, ma in certi casi ti resta addosso l’impressione che non sia stato fatto abbastanza per salvarne alcuni. Il Golden Gate Bridge fu aperto al traffico nel '37  
e ha mantenuto fino al 1957 il primato di ponte più lungo del mondo, perso i quell’anno a favore del Michigan's Mackinac Bridge. Ha mantenuto invece il triste primato di luogo più ambito al mondo dai suicidi che dalla sua inaugurazione si contano a migliaia. Il regista rivendica motivazioni nobili che lo hanno spinto a realizzare questo inquietante documentario, motivazioni che nascono dall’annosa contrapposizione tra chi vorrebbe che lungo i bordi del ponte e per tutta la sua lunghezza fossero montate delle barriere per impedire o limitare la possibilità di arrampicarsi e quindi gettarsi nel vuoto e coloro che invece sostengono l’inutilità di tale operazione, dal momento che chi ha deciso di suicidarsi non avrebbe che da cambiare il luogo dove mettere in atto il proprio, estremo gesto, aggiungendo a ciò i motivi estetici. Steel, ovviamente, è schierato dalla parte di chi vorrebbe le barriere e per questo ha pensato di realizzare il film. Lo abbiamo detto, fatta salva la buona fede, tutta l’operazione lascia dei dubbi, perché quando si vede un uomo che passeggia avanti e indietro, sale sul parapetto, riscende, poi risale, indugia e alla fine si lascia cadere da un’altezza di 67 metri e dopo quattro secondi impatta con la superfice del mare alla velocità di 120 chilometri orari, sollevando uno spruzzo così piccolo da sembrare inadeguato alla tragedia, ebbene, si è portati a pensare che un intervento tempestivo avrebbe forse potuto salvarlo. Inoltre viene naturale chiedersi se è proprio necessario spiare gli ultimi momenti di chi ha deciso per sé che la vita non vale più la pena di essere vissuta. Sono struggenti le testimonianze di parenti e amici delle vittime che nel film si alternano nel raccontare chi era il loro congiunto e le loro considerazioni sul gesto, i sensi di colpa che un suicida lascia in eredità a chi non ha saputo o potuto fare niente per alleviargli le sofferenze che lo hanno portato a scegliere la morte. Ne risultano ritratti di persone sempre in lotta con insufficienze esistenziali tali da farli sentire inadeguati alla vita.


(recensione di Claudio Montatori )

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