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C’è una
Sardegna fatta di
granito ed arenaria,
di colline, altopiani
rocciosi. C’è
una Serdegna schiacciata
dal cielo, tutta spigoli
e massi appuntiti.
Terra aspra e ruvida,
baciata da un mare
che, se sei un pastore,
nemmeno sai che esiste.
Una Sardegna dove
«sopra suoni
di gregge e raffiche
di mitra, passano
gli elicotteri dell’antimalaria
e sui casolari e i
paesi del dopoguerra
si accende il miracolo
dell’energia
elettrica».
È la Sardegna
di Giuseppe Fiori,
quella di Salvatore
Mereu. Dopo “Ballo
a tre passi”
(bello, sì,
ma innegabilmente
discontinuo), con
“Sonetàula”
il regista consegna
alla memoria un ritratto
di sconvolgente purezza
visiva. Mereu rinuncia
alla coralità
del primo film, alla
sua struttura ripartita
ed allegorica. Punta
tutto, invece, sull’unicità
del personaggio, sulla
sua parabola biografica
ed esistenziale. Zuanne
è il |
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corpo su cui
quella terra
ha inciso
i propri segni,
facendo della
pelle, degli
occhi, del
volto, uno
specchio ostile
e profondo,
una trama
di ferite
e cicatrici
che solo raramente
incornicia
un sorriso.
L’infanzia
sui monti
mentre il
padre è
al confino,
il torto subìto
e ripagato,
la fuga che
si fa caccia.
E ancora,
la vita randagia,
il crimine,
le notti nel
buio dei boschi
con gli occhi
sbarrati,
il fucile
stretto in
mano. Il tempo,
nel film di
Mereu, non
ha scansione.
È il
procedere
inesorabile
del mondo,
che lo spettatore
non deduce
ma intuisce.
Sarebbe piaciuto
a Bergson,
“Sonetàula”.
O a Proust,
secondo cui
un’ora
non è
solo un'ora,
ma un vaso
colmo di profumi,
di suoni,
di progetti,
di climi.
Zuanne Malune
vive sullo
schermo 157
minuti, ma
è così |
fisica la
sua presenza,
così
tangibile
la sua sensibilità,
che allo spettatore
sembra davvero
di averne
vissuto la
vita. Nella
sua interezza,
nel mosaico
composito
delle sue
declinazioni.
Mereu continua
un cinema
antropologico,
che lega i
personaggi
all’ambiente
in modo viscerale,
a tratti doloroso.
Sarà
per la presenza
inevitabile
del fato,
sarà
per il pathos
che trasudano
le immagini,
ma l’impressione
è di
aver assistito
ad un’opera
classica,
imbevuta in
ogni fotogramma
di un febbrile
senso del
tragico: la
morte, che
sia catarsi
o sempilce
disgrazia,
è l’unica
prospettiva
per il giovane
Sonetàula.
Troppe scelte
avventate,
in un mondo
che perdona
poco. Basta
uno sguardo
per capirlo,
mentre porta
al pascolo
le pecore,
mentre cerca
rifugio tra
i sassi. C’è
solo la morte
ad attendere
quel corpo
ostinato.
Stagliato,
in campo largo,
tra quel cielo
e quella terra.
(recensione
di Lorenzo
Donghi )
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