simboleggiare l'incomunicabilità, il vuoto esistenziale, la sostanziale inutilità del tutto.
Somewhere sembra il compitino intellettualoide fatto da chi non sa cosa scrivere e prova a sfangarla sbirciando sul foglio del compagno di banco. Il fatto è che in
Lost in Translation i vuoti erano pieni, pienissimi, e i silenzi comunicavano come nessuna parola saprebbe fare. In
Somewhere invece i vuoti rimangono vuoti e i silenzi rimangono silenzi, non alludono, non sottintendono, non comunicano altro che la sostanziale mancanza di idee. Non è facile da spiegare ma è il motivo per cui applicare alla lettera una ricetta non basta. Questione di ispirazione, quella che la figlia di Coppola stavolta, dopo tre (quasi) capolavori ha smarrito, somewhere. Può succedere, non c'è da allarmarsi. Quello che a noi dovrebbe allarmare invece è l'immagine che il mondo avrà della televisione italiana e quindi, di riflesso, della nostra società, con Simona Ventura che sembra una maschera di carnevale e la Marini che zompa sul palco sgraziata e fuori tempo davanti ad un allibito Stephen Dorff (a proposito, chi temeva di scoprire che Stephen Dorff, in realtà, fosse bravo può tirare un sospiro di sollievo). Che infatti nell'inquadratura successiva se la dà a gambe. La Marini almeno se ne sarà resa conto? Scommettiamo di no.
(di Mirko Nottoli)