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Astratto, simbolico,
etereo, sintetico.
Ma anche carnale,
sensuale, violento,
terreno. E’
nella dialettica irrisolta
e irrisolvibile tra
materia e spirito
che si genera e si
sviluppa il cinema
di Kim Ki-Duk, autore
sudcoreano che non
ha più bisogno
di presentazioni.
Cinema del silenzio,
cinema che parla sovente
per immagini, cinema
degli opposti che
sa rinchiudere dentro
un’unica inquadratura
amore e odio, peccato
e redenzione, vita
e morte. Come in questo
Breathe – Soffio,
l’alito vitale
che dà alla
luce e uccide allo
stesso tempo. Una
volta sono morta per
5 minuti, rivela lei
a lui imprigionato
nel braccio della
morte in attesa dell’esecuzione.
Un’ uccisione
però dolce,
un’ esperienza
dolorosa ma necessaria
perché per
poter rinascere bisogna
prima morire. Proprio
come il trascorrere
delle stagioni, a
cui il regista |
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torna,
topos
fondante
della
sua
poetica,
anche
qui
per
scandire
metaforicamente
attraverso
di esso
i momenti
cruciali
del
film.
Primavera,
estate,
autunno
e inverno…e
ancora
primavera,
esattamente
in quest’
ordine,
esattamente
come
recita
il titolo
di uno
dei
suoi
film
più
famosi.
Come
dire:
ascesa,
caduta
e di
nuovo
ascesa.
Il ritorno
ad una
serenità
ritrovata
per
lei;
una
morte
finalmente
rasserenata
per
lui.
La |
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vetta
come traguardo
di un’erta
può
assumere connotati
uguali e contrari,
tutto scorre,
tutto è
relativo,
le prospettive
mutano se
muta il punto
di vista.
In mezzo c’è
il dolore,
il sacrificio,
la rinuncia
di sé.
Lui che non
parla (come
il protagonista
di Ferro 3),
lei che si
sveste dei
suoi panni
per indossarne
altri e concedersi
incondizionatamente
(come in Time).
Bisogna sudare
per raggiungere
la cima di
una montagna
ma il panorama
che da là
si gode ripaga
di ogni sforzo.
Cinema degli
opposti ma
anche e forse
soprattutto
cinema della
libertà,
che è
prima di tutto
libertà
di pensiero,
contro le
costrizioni
e le convenzioni
sociali, che
in Kim Ki-duk
si esplica
in una libertà
produttiva
e artistica
che bypassa
consequenzialità
logiche ed
effetti di
realtà.
Nessuna parete
può
intrappolare
la mente.
Basta un po’
di carta da
parati, uno
stereo e l’immaginazione
per trasformare
una cella
nell’altrove
desiderato.
Ancora Ferro
3, dove il
protagonista
rinchiuso
in carcere
sviluppa il
potere di
scomparire,
pur non muovendosi
mai da lì.
Com’è
nelle corde
del regista,
nulla ci viene
spiegato.
Nessun comportamento,
nessuna azione,
nessun stato
d’animo.
Ogni suo film
è come
una corsa
ad ostacoli
in cui sta
allo spettatore
interpretare
i simboli,
colmare le
lacune, dare
voce al non
detto, dare
espressione
ad un volto
che rimane
impassibile
e muto. Non
siamo al livello
dei suoi capolavori
più
riusciti:
l’intreccio
è abbastanzo
elementare,
lo schema
ripetitivo
e la storia
alla base,
tutto sommato,
semplice e
lineare, ma
ogni film
di Kim Ki-duk
è un’esperienza
che in ogni
fotogramma
grida la propria
diversità
in fatto di
sguardo e
di sensibilità,
di mezzi espressivi
e di obiettivi,
un modo di
fare cinema
a cui non
siamo abituati
che ci restituisce
un mondo a
cui non siamo
abituati,
che procede
per sottrazione
raschiando
fino al midollo
una narrazione
dall’andamento
disteso e
sommesso quasi,
dal tono leggero
anche se pesante,
rarefatto
come i temi
trattati,
come l’essenza
delle domande
che pone,
come le risposte
che lascia
scientemente
in sospeso.
(recensione
di Mirko
Nottoli)
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