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Per il giovane regista
John Cameron Mitchell,
“Shortbus”
è il secondo
lungometraggio dopo
il suo esordio con
il film “Hedwig
and the Angry Inch”.
Presentato alla selezione
ufficiale del Festival
di Cannes, Shortbus
è un film ellittico
e spiazzante, in quanto
coniuga vecchi e nuovi
schemi sul diritto
a vivere una sessualità
nel rispetto delle
“diversità”
soggettive. Mitchell,
è attore, commediografo,
regista, e rappresenta,
nel senso più
vero possibile, la
voce più autorevole
dei gay d’America.
Figlio di un comandante
del dipartimento militare
americano di Berlino
Ovest prima della
caduta del muro, e
di un’artista
scozzese, Mitchell
è cresciuto
in un ambiente molto
religioso, militare
ed anche artistico,
ma sessuofobico, e
molto presto si è
scoperto gay. Il film
può considerarsi
riuscito, con sottigliezza
ed arte, nel- |
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l’intento
di mediare,
in un
messaggio
corale,
quell’humus
culturale
che
si sta
facendo
intrepidamente
strada
tra
le folle
giovanili
e non,
che
vivono
il sesso
non
più
come
qualcosa
di negativo
(come
i cattolici
conservatori,
dice
Mitchell),
ma come
forma
comunicativa,
conoscenza
attraverso
le sensazioni
dei
corpi.
Shortbus,
nome
riferito
al tradizionale
scuola
bus-giallo
americano,
piccolo,
per
bambini
con
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“esigenze
speciali”,
è il
nome di un
locale d’incontri
tra etero
ed omosessuali.
In questo
luogo sono
ambientate
le esperienze
d’incontri
sessuali di
un gruppo
di personaggi
emblematici
della New
York di oggi.
La metafora
del sesso
accomuna Sofia
(Sook-Yin
Lee), sessuologa,
che non riesce
a raggiungere
mai l’orgasmo,
James (Paul
Dawson) e
Jamie (PJ
DeBoy), una
coppia gay
che comunque
arrivati ad
un bivio nel
loro rapporto
di coppia,
devono capire
le cause del
problema che
inibisce la
loro relazione,
Severin (Lindsay
Beamish),
ragazza sola
e complessata,
che si nasconde
dietro una
maschera di
donna sadomaso
e dominatrice,
ma alla ricerca
di una sua
identità
più
vera. Tutti
convergono
nello Shortbus,
gestito dall’affascinante
travestito
Justin Bond,
interprete
di sé
stesso. Il
luogo “Shortbus”,
non è
altro che
una dimensione
circoscritta
della New
York di oggi,
successiva
gli avvenimenti
dell’11
settembre,
dove vivere
è diventato
ancora più
difficile,
soprattutto
per le forme
di relazione
e comunicazione
umana. E con
coraggio,
Mitchell realizza
un film come
questo, stridente
con le immobilizzazioni
di modelli
stereotipati
della società
contemporanea,
ma che si
inserisce
perfettamente
nel tessuto
connettivo
di questa
società,
ormai plurivocale,
globale e
transculturale.
L’ambientazione
è in
una New York
che Mitchell
non inquadra
mai, se non
in un plastico
ingessato,
multicolorato,
a tratti illuminato,
e lascia che
l’anima
della città
sia percepita
dalla newyorkese
statua femminile
della Libertà.
Le luci della
città
a tratti diventano
fioche, per
poi riprendere
il vigore
intenso della
luce. E’
una metafora
che consente
al giovane
regista di
mettere in
scena i conflitti
interiori
dei personaggi,
le crisi d’identità,
i movimenti
sentimentali,
che alla fine
devono trovare
una collocazione
nello spazio
della contemporaneità,
dove i modelli
sono in via
di ridefinizione.
E’ così
per la sessuologa
Sofia, che
ritrova il
piacere con
l’apertura
ad un sesso
di gruppo,
sotto lo sguardo
ammiccante
e forse compiacente
del marito.
Anche la coppia
gay, James
e Jamie, risolve
l’enigma
dell’arresto
della loro
relazione
con l’aiuto
di un terzo
soggetto.
Si nota in
Mitchell un’indubbia
ispirazione
a Robert Altman,
alla sua coralità
comunicativa
ed avvicente.
E la comunicazione
Mitchell la
attiva principalmente
attraverso
i corpi, il
contatto fisico
dei suoi personaggi,
che alla fine
rappresenta
in un’esplosione
di voci, di
canti, di
musica e di
suoni, di
colori e performance
soggettive,
che si definiscono
e si confondono
nel miasma
più
eterogeneo
di un’umanità
ormai in via
di affermazione.
(di Rosalinda
Gaudiano
)
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