SHIRIN
 
locandina shirin

recensione shirin

 
E' (era?) il più amato regista iraniano nel mondo, un autore che esibisce la lentezza come caratteristica non solo formale, ma anche come esibizione tangibile della superiorità medio-orientale rispetto alla frenesia impalpabile dell'Occidente (e del nostro sguardo, soprattutto). Il cinema iraniano, v. Payami e la grande famiglia Makhmalbaf, che riscuoteva il consenso di tutti gli addetti ai lavori, salvo poi ricredersi (come spesso accade alla critica internazionale) e dire che "non è più il caso di esaltare il cinema iraniano et similia". E' probabile che la critica troverà modo di ritrovare il vecchio amore per il cinema iraniano, grazie a quest'opera spiazzante di Kiarostami. Nessuno si aspetti di vedere villaggi brulli e lunghe riflessioni sulla vita e sulla morte, e tantomeno tracce di surrealismo indotto e stupefacente  
 
naturalista, tutt'altro. "Shirin", poema persico dell'XII Secolo, molto amato in patria, triste vicenda vagamente Shakespeariana dell'amore tra Ashkrov e la principessa Shirin, vive della rappresentazione teatrale operata da Kiarostami, che utilizza i volti di ben 114 attrici iraniane di cinema e teatro, e una francese (la bellissima Juliette Binoche) messe davanti al coinvolgimento emotivo per la vicenda che   recensione shirin
"vedono" (o che noi crediamo che essi vedano). Allo spettatore, sottratto il piacere della visione, non resta che empatizzare con la partecipazione emotiva delle donne, in definitiva fidarsi ciecamente dello sguardo metacinematografico sollecitato da Kiarostami. E' un "fuori-campo" radicale e coraggioso, che gioca solo apparentemente con la (nostra?) sottrazione emotiva, ma in realtà risalta la dimensione astratta e concreta insieme operata dal regista. Quali spettatori? Noi stessi, che guardiamo con gli occhi degli altri. E che occhi... "Ogni volta che si girava, non sapevamo come fosse la storia, le attrici non vedevano nulla davanti a sè e ognuna di loro ha avuto massimo 5 minuti per la parte: avevano solo qualche sedia, una telecamera con tre puntini, e io chiedevo loro di concentrarsi lì" (cfr. Abbas Kiarostami). Risolto il dilemma, diciamo allora che "Shirin" è un'esperienza che arricchisce il linguaggio del cinema contemporaneo, tenendo fede alla bravura anche fotografica dell'autore (le lacrime, le rughe delle donne, gli spasimi ricreano una sorta di rielaborazione filmica dell'arte dipinta), senza contare tutti quei meccanismi (il rumore del vento, le porte che stridono o si aprono, il nitrire dei cavalli, la lama di una spada sguainata, l'effetto emotivo della struggente colonna sonora) ai quali la nostra psiche reagisce per reazioni e stimoli diversi. Si vedono "solo" volti di donna, ma ci sono anche uomini (dietro a loro, quasi nascosti) e quindi la vicenda di Shirin e del suo amore infelice diventa anche un'acuta riflessione sulle condizioni della donna nell'Iran di oggi, e un omaggio alla figura femminile nel corso dei secoli. "Shirin" è un cinema che ritrova la sperimentazione come atto eversivo di arricchimento aptico, nonostante l'unico limite sia non tanto nella scelta stilistica quanto nella direzione delle attrici: non sarebbe stato uguale scegliendo 114 donne iraniane qualunque e una qualunque donna occidentale?



(di Luca D'Antiga )


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