RUSH HOUR - MISSIONE PARIGI
 

recensione rush hour 3

 
Il detective afro-americano Jack Carter e l’ispettore cinese Lee si ritrovano a Parigi, alla ricerca di Shy Shen, la lista dei capi delle Temibili Triadi cinesi. Nella lotta internazionale al crimine troveranno nuovi alleati e vecchi nemici. Come possono due poliziotti imbranati, approssimativi, sbadati e privi di talento, dare scacco niente popò di meno che alla terribile organizzazione criminale che fa capo alle Triadi cinesi? Con molto coraggio, intuizioni brillanti e una gran capacità d’improvvisazione, che fa dell’originalità la sua arma migliore. E, naturalmente, con un’infinità di forzature nella sceneggiatura. E così le due mine vaganti del cinema d’azione si nascondono dentro una bandiera, che poi usano come paracadute, si camuffano sotto un lettino di ospedale o si improvvisano showmen, cantando e balland o per salvare la donna in perico-  
 
lo. Quell’originalità e quella capacità di sorprendere – ma non le forzature – sembrano invece mancare totalmente a Nathanson e Ratner. Questi, quando non citano apertamente (“Il tempio maledetto” di Spielberg, per il quale Nathanson ha sceneggiato alcuni film più recenti), sciorinano tutti i cliché della commedia action: la coppia multi-etnica, la femme-fatale e la donna in pericolo da salvare, gli inseguimenti,  
a piedi e in macchina, le battutacce, il cattivo spietato e quello a sorpresa, le scazzottate e le sparatorie, oltre alle spade, assai di moda negli ultimi tempi. È cinema d’azione autopoietico, che genera e rigenera se stesso, in una ridondante e deflagrante ripetizione di episodi che si susseguono con scarso criterio e sono destinati a non mutare mai. La storia procede a strappi, svolgendosi come un’addizione di soluzioni che conducono solo alla scena successiva, sino ad arrivare ad un ovvio finale. Tutto è votato alla causa dell’entertainment più gretto e, benché a volte si rida, la farsa e i luoghi comuni prevalgono sull’ironia. Tanto che anche Polansky – in un doppio inaspettato cameo – dopo aver ironicamente sodomizzando il cinema commerciale, viene da questo mandato al tappeto, in una simbolica rivincita sui film d’autore. Scontati, stantii e tutti filoamericani, gli stereotipi su francesi, cinesi e afroamericani; anche i due protagonisti, infine, sono ai minimi termini. Si salvano un paio di scene e qualche trovata: gli scambi di pistole e caricatori tra Tucker e Chan, la traduzione della suora, il finale sulla Tour Eiffel, il finto siparietto romantico in cui i due partner si separano dopo una litigata.

(recensione di Dario Bevilacqua)


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