RISCHIO A DUE
 

rischio a due - recensione

 
Per Al Pacino potrebbe trattarsi di una vera e propria “Dipendenza dal rischio”. Recitare è gioco, generosità ed eccesso. Ma soprattutto una visione alternativa del reale. Con estremo pudore e molta parsimonia, l’attore accetta parti quasi come se per lui il lavoro fosse terapeutico. E lavorando nel nome del Metodo sulla sua solitudine esistenziale, ha costruito una galleria di grandi personaggi “autobiografici” che, se da un lato lo hanno imprigionato in un percorso obbligato, dall’altro lo hanno imposto subito, appena trentenne, come l’emblema del nuovo cinema esistenzialista e problematico anni Settanta. Da La Regola del Sospetto a Rischio a due, l’attore imperfetto abitato dagli eccessi e dall’incomprensione, si racconta attraverso segni, piuttosto che interpretazioni. In quest’ultima operazio-  
 
ne di marketing, professionalmente senza infamie, con Pacino che istrioneggia con l’aria sempre più disfatta e McConaughey cavo elettrico ad alta tensione, c’è il sapore di Stangata per un duo comico inedito. A metà film purtroppo già cadono le maschere. Ma il gioco, visto e rivisto, è realizzato con grande eleganza formale (alternanza di luci fredde e calde, montaggio nervoso, location indovinate).  
Per tutta la prima parte il regista riesce a mantenere un crescendo di tensione e un ritmo notevoli. Quando invece è costretto a far girare il meccanismo verso la risoluzione conclusiva, perde progressivamente coerenza e credibilità. E soprattutto non riesce a produrre un “coup de théatre” veramente sorprendente. D.J. Caruso (Identità violate) è un regista solido e affidabile che, probabilmente, con una sceneggiatura meglio congegnata, avrebbe realizzato un film di maggior impatto. Con "Rischio a due" capitalizza comunque al massimo i suoi attori.

(di Bruno Trigo )

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