REQUIEM
 

requiem recensione

 
Cosa ha spinto Hans-Christian Schmid a dirigere un film come REQUIEM, in concorso al festival di Cannes di quest’anno? Un pellegrinaggio che il regista, nativo di un paese cattolico a sud della Germania, ha compiuto a Klingenberg, luogo dove nel 1976 una studentessa cattolica di nome Anneliese Michel morì, per denutrizione e atti vessatori in seguito a numerosi esorcismi. Dunque il film narra una storia vera. L’ambientazione scenica è in un piccolo paese a sud della Germania, circondato da immense montagne e ampi pascoli. In questo luogo, vive Michaela (Sandra Hüller) con la sua famiglia: padre (Burghart Klaussner), madre (Imogen Kogge) ed una sorella minore (Anna Blomeir). La famiglia Klinger è radicalmente cattolica, tanto da porre tutto nelle mani “del Signore”, nella preghiera, soprattutto i problemi  
 
seri, come lo stato di salute della loro figlia Michaela, affetta da una forma di epilessia. Schmid svolge con ordine il filo della trama. Senza ricorrere a virtuosismi scenici, presenta il racconto con semplicità di scrittura, riuscendo a dare un corpo coeso a tutta la narrazione, stimolando in crescendo un’emotività irrequieta e intensa. Così narra la storia di Michaela Klinger, la cui vita è ingabbiata in una forma di culturali-  
smo bieco, la cui sostanza è pervasa da un moralismo cattolico integralista, che annienta ogni forma di vita, di luce umana, come lo sguardo verso la vita della stessa Michaela. E nella contrapposizione tra una forma culturale radicata e chiusa e la voglia di vivere della ragazza, ed i tentativi che Michaela compie per sottrarsi a quel mondo chiuso sia familiare che sociale, Schmid riesce in pieno a mettere in evidenza nella narrazione che, quando le forme culturali sono radicate, senza possibilità di confronto, spesso si ritorcono contro gli stessi individui. Michaela non riuscendo a trovare in famiglia un suo spazio per crescere, si trasferisce in una cittadina universitaria per compiere i suoi studi. Lì inizia un percorso di crescita soggettivo. Fa amicizia con Hanna e riesce a costruire un rapporto affettivo con Stefan. Lontano dalla famiglia e dal luogo di nascita, la vita di Michaela acquista in crescendo una dimensione più consona alla vivacità e freschezza dei suoi 21 anni. Tanto che Michaela riceve l’approvazione del suo padre spirituale, per la sua audacia ad aver lasciato il paese di nascita e la sua famiglia. Ma, i legami non si troncano facilmente, specie quando l’educazione ricevuta è come un marchio e lavora senza sosta nell’intimo più profondo, sovrapponendo la morale ai diritti individuali. Michaela non riesce a liberarsi di quei fantasmi che le parlano e le sconvolgono la mente. Crede ancora che l’unica soluzione sia tornare in famiglia, ed è lì che chiede con una forza distruttiva, che sa tanto di liberazione interiore, il riconoscimento della madre, ad una vita sua, che le spetta di diritto, e che la madre le aveva sempre negato. E qui Schmid ha saputo davvero addentrarsi nei meandri più bui dell’essere umano indifeso, soggiogato, plagiato, da un moralismo ed un familismo che non lascia spazio alla vita. Supplicata da Hanna e Stefan ad allontanarsi dal “suo” mondo, Michaela invece ne è risucchiata, e più volte esorcizzata, perché creduta indemoniata, non riuscirà più ad impadronirsi di sé stessa.

(di Rosalinda Gaudiano )

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