RECENSIONE RABBIT HOLE
 
 

di Maria Silvia Sanna (***1/2)

 

di Mirko Nottoli (*1/2)

Nicole Kidman si lancia come produttrice e decide di circondarsi di una serie di artisti a cui dare fiducia e credito: sceglie la squadra per il suo film in base alla stima professionale scommettendo in primo luogo sul regista John Cameron Mitchell, grande talento che abbiamo conosciuto con Hedwig - La diva con qualcosa in più e con Shortbus, al quale affida una storia decisamente lontana dalle tematiche dei suoi primi due film. L'avevamo conosciuto come il cantore della sessualità e dell'affermazione della propria identità ed ora il regista si dimostra capace di cambiare segno e registro senza perdere la sua efficacia narrativa. In questo dramma che racconta una delle più grandi tragedie che si possano affrontare, la perdita di un figlio, la sua partecipazione è anche emotiva e autobiografica, perché da giovanissimo John Cameron Mitchell ha   Film in concorso al premio “alègher alègher 2011” (dovrà vedersela con Biutiful, il superfavorito, e Hereafter), racconta il dramma di una giovane coppia che si vede costretta a fare i conti con il dolore più straziante e inimmaginabile, la perdita del proprio figlio. Siccome di film sulla perdita di un figlio è pieno il mondo, da un film che decide di trattare questo tema, oggi, ci si aspetterebbe almeno un punto di vista inconsueto, una chiave interpretativa inusuale, una rappresentazione dell’elaborazione del lutto che segua percorsi non decodificati. Del resto, davanti al dolore ognuno reagisce a modo suo e di fronte ad una simile tragedia è lecito aspettarsi da ognuno le reazione più diverse. Invece Rabbit hole non fa che inanellare una serie infinita di clichè con i due genitori che in modo opposto incarnano
 
 
 
dovuto affrontare con la sua famiglia la morte del fretello. Rabbit Hole è tratto da una piece di David Lindsay-Abaire , che ha realizzato anche l'adattamento cinematografico (aveva già scritto per il cinema la sceneggiatura del film d'animazione Robots e quella di La leggenda del cuore d'inchiostro ); la sua natura teatrale gli conferisce una struttura il cui ritmo è fortemente imperniato sui dialoghi, senza che questo si trasformi mai in un difetto. Com'è naturale, il film si regge in gran parte sulla intensa performance dei due protagonisti Aaron Eckhart e Nicole Kidman (che nonostante sia imbalsamata dalla chirurgia plastica, riesce a regalare momenti da brivido) i quali interpretano Howie e Becca Corbett, un marito e una moglie distrutti per la morte del figlio, che si perdono mentre percorrono due strade diverse per affrontare il lutto, per poi ritrovarsi nello stesso punto. Come ha dichiarato Eckhart nel corso della conferenza stampa presso il Festival Internazionale del Film di Roma , durante il quale il film è stato presentato, il regista ha preteso da tutto il cast un lavoro immersivo ed intenso: "Per volere di John, durante la lavorazione del film abbiamo vissuto tutti insieme in una casa a Long Island e questo ha reso più intense le nostre prove, oltre ad farci conoscere meglio come persone". La sceneggiatura realistica e commovente è resa ancora più intensa dalla regia elegante e asciutta, che tuttavia si permette alcune note personali. Chi l'ha amato sin dal suo primo film riconosce la firma di Mitchell nel suo uso dei disegni fatti a mano come contrappunto alla storia narrata, che in questo caso servono a introdurci nel mondo di un altro del personaggi della storia, il giovane Jason ( Miles Teller ). Soprattutto, in questo film come nelle sue due opere precedenti troviamo l'intuizione della copresenza di tragedia e commedia, così Rabbit Hole sorprende lo spettatore a ridere tra le lacrime, mentre l'empatia con i protagonisti è fortissima e inevitabile.






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  tutti gli stereotipi previsti dal manuale: lei apatica e insofferente perchè nulla ha più senso, lui finto disinvolto alla disperata ricerca di una straccio di normalità. La volontà di presentarli come personaggi non banali cozza con gli immancabili inciampi nelle banalità più trite, senza che abbiano mai uno scatto d'orgoglio, senza riuscire mai ad andare oltre se stessi, senza riuscire mai a far buon viso a cattivo gioco, checché se ne dica una delle conquiste più mature che si possano raggiungere cioè l'idea di riuscire, per una volta tanto, a reprimere un'emozione evidentemente sbagliata con l'uso della ragione, questa sconosciuta. E invece niente, il dolore è talmente grande che non si reprime nulla, per cui lei sbraita pateticamente al supermercato con quella che si rifiuta di comprare la cioccolata al bambino, lui non riesce a tacere sulla morte del figlio ai presunti compratori della casa che da presunti si fanno di nebbia. E poi: le invettive contro dio, i rancori repressi sulle responsabilità dell'uno o dell'altra, il gruppo d'ascolto, le canne, i pianti sommessi, l'oscillare senza soluzione tra il ricordo e l'oblio. Dopo piccoli gioielli di originalità e spregiudicatezza quali Hedwig e Shortbus, da John Cameron Mitchell ci si attendeva qualcosa di quantomeno più immaginifico o dirompente, non certo una messa in scena così lineare dove il suo tocco si intravede solo nei pochi momenti sulla realizzazione del quaderno a fumetti (il Rabbit Hole del titolo). L'interesse primario del film sta tuttavia nel ritorno sulle scene di Nicole Kidman, che si ricorda di essere un'attrice dopo essersi iniettata per mesi litri di botox in viso, che l'hanno resa buona giusto per Madame Tussauds. Non è un caso se per tornare a recitare in un ruolo di peso ha dovuto prodursi il film da sé e scritturarsi da sola. Il momento peggiore sembra passato (e infatti l'hanno premiata subito con una canditura agli oscar), l'aspetto è tornato quasi umano anche se in alcune inquadrature sembra alba parietti. Di lei meglio Aaron Eckhart, con quella faccia un po' così e l'espressione un po' così è difficile da prendere sul serio, invece è nella sua fragilità, nella sua ostinazione, nel suo ingenuo desiderio di andare avanti senza lasciare indietro nulla, la parte più profonda e riuscita della pellicola.




 
 
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