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recensione qualcuno con cui correre
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Il cinema racconta Gerusalemme, non come magari siamo soliti immaginarla, come città che racchiude la sacralità religiosa e l'eterno conflitto arabo-israeliano, ma come una metropoli come tante, afflitta dai suoi quartieri malsani, droga, delinquenza ed emarginazione giovanile. "Qualcuno con cui correre" è il secondo lavoro di regia di Oded Davidoff ed è tratto dal romanzo di David Grossman. Assaf (Yonatan Bar Or), che lavora temporaneamente in municipio, è stato incaricato di trovare il padrone di Dinka, un cane che è stato preso dall'accalappiacani. Assaf si lascia trascinare dall'irruenza del cane ed inizia per i
due una corsa rocambolesca per le strade, i vicoli sinistri, i locali di una Gerusalemme che vive avvolta nel frastuono metropolitano. Una città che presenta un volto buio ed inquietante soprattutto per i suoi giovani, sbandati |
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di strada, drogati e succubi di bande criminali senza scrupoli. In questa città Tamar (Bar Belfer), cerca suo fratello Shay (Yuval Mendelson), che si fa di droga per suonare come Jimi Hendrix. Shay è vittima di uno spacciatore che ospita in una grande casa ragazzi sbandati, con aspirazioni artistiche, che vengono invece sfruttati dalla sua banda. Tamar, determinata nel suo piano di salvare il fratello, |
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riesce alla fine a farlo fuggire. Tra corse, incontri, rivelazioni e situazioni raccapriccianti, grazie alla cagna Dinka, le strade di Tamar e Assaf si incontreranno nel dipanarsi del racconto, originale per il parallelismo delle azioni dei protagonisti, sfasate nel tempo. L'intento di Davidoff, nella sua trasposizione in chiave filmica del romanzo di Grossman, è raccontare una faccia insolita della società israeliana, servendosi della telecamera in spalla, inquadrature instabili ed immagini in digitale sgranato. L'ossatura del film si basa sull'aspetto squallido di una società giovanile allo sbando, senza una dimora familiare, espressa da linguaggi di deformazione corporea, da ornamenti e da vestiti che sottolineano l'affermazione e l'appartenenza ad un modello culturale underground giovanile metropolitano. I loro volti sono tatuati, le loro orecchie, le loro narici, le loro bocche vengono forate a seconda delle esigenze rituali, gerarchiche o estetiche della loro appartenenza identitaria. Il film, tutto sommato, non fa una piega come idea di fondo. Ma non riesce ad emozionare e catturare l'attenzione necessaria soprattutto nello svolgimento della prima parte, in cui manca un'analisi più dettagliata ed incisiva della cultura giovanile emersa dal complesso della società israeliana d'appartenenza. Questa superficialità introspettiva della regia penalizza non poco il film, che per buona parte si trascina e purtroppo non è d'aiuto la recitazione inespressiva della giovane Bar Belfer. Il finale non risolve le mancanze presenti. Con l'intento di mediare un messaggio universale, l'amore nato tra i due protagonisti, Tamar e Assaf, che superano così le rispettive appartenenze culturali (Assaf è arabo e Tamar israeliana), conclude tutto con una nota fin troppo romantica.
(di Rosalinda Gaudiano)
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