PROPRIETA' PRIVATA
 

proprietà privata recensione

 
È alquanto probabile che molti sceglieranno questo film per la presenza dell’incommensurabile Isabelle Huppert. Spesso un interprete è sufficiente a giustificare l’acquisto di un biglietto cinematografico: è stato sempre così e, con tutta probabilità, sempre lo sarà. Ma in questa pellicola di Joachim Lafosse c’è molto di più di una grande attrice. C’è una storia sofferta di rapporti familiari, accavallati come carte sparse su un tavolo. Ci sono due gemelli in lotta con le proprie stesse vite, incapaci di badare a se stessi e allo stesso tempo sorretti da una grande spinta vitalistica. C’è un nucleo familiare che si disgrega, una madre combattuta tra il dover essere una buona genitrice e la necessaria emancipazione dalla schiavitù domestica. Una tensione sotterranea attraversa e intreccia i personaggi: un misto di sessualità promiscua, senso di colpa e  
 
silenzi insopportabili, che finiscono per sfociare in una gelosia al contempo malata e naturalissima. Quando “Proprietà privata” è stato presentato a Venezia parte della critica lo ha tacciato di un ricorso eccessivo ad urli e litigi, affermando che essi talvolta sono poco verosimili. Sarebbe bastato avere la pazienza di ascoltare con attenzione le parole del giovane regista belga in conferenza stampa per rendersi conto della as-  
soluta padronanza del registro usato. Questa è una tragedia contemporanea e gli eccessi sono funzionali allo sviluppo drammatico. “Proprietà privata” è un’opera riuscita proprio perché non è pavida nel mostrare i sentimenti, piuttosto li incarna nella sceneggiatura senza patetismi, arrivando ad un acme emozionale davvero raro in un’opera contemporanea. Merito sicuramente anche dell’uso parco e sublime della musica e di un rapporto interno/esterno calibrato al millimetro, lo spettatore arriva in fondo al film con un senso di pienezza ma anche di autentico smarrimento. Ma forse il contributo più interessante apportato da questo film è lo scavo di interrogazione del rapporto gemellare, relazione che difficilmente in passato è riuscita a trovare un degno spazio all’interno della settima arte. Il regista è un gemello e si vede, perché difficilmente si sarebbe potuto rendere un rapporto così speciale senza averne avuto almeno una minima esperienza personale. E i Renier (semplicemente fratelli nella vita reale) interpretano François e Thierry in maniera magistrale. In particolare il dardenniano Jérémie Renier (“La promesse”, “L’enfant”) rasenta in alcuni punti quasi una perfezione assoluta, tanto che (sembra impossibile ma è così) a conti fatti la performance di Isabelle Huppert ne è addirittura adombrata. A parer nostro è lui il vero vincitore della Coppa Volpi come Miglior Attore (su “trionfo” di Ben Affleck è bene stendere un velo pietoso) e speriamo che non si stanchi mai di essere l’attore selvaggio e intenso che abbiamo imparato a conoscere. Unico neo (ma è subito perdonato) è l’inverosimiglianza dell’età degli attori: nel film dovrebbero avere 22-23 anni (ma 12-13 psicologici, Lafosse dixit), mentre nella realtà Jérémie Renier ne aveva 26 e Yannick 31; francamente si nota.

(recensione di Marco Santello )

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