PARANOID PARK
 
 

di Lorenzo Donghi (**)

 

di Rosalinda Gaudiano (***1/2)

Paranoid Park è clamorosamente un film di Gus Van Sant. Bastano poche inquadrature per capirlo, pochi secondi. Sarebbe sufficiente, a dire il vero, il pedinamento iniziale del protagonista, che dà le spalle alla mdp mentre si trascina attonito lungo un sentiero collinare: l’ombra di Michael Pitt/Kurt Kubain di “Last Days” o dei protagonisti di “Elephant” vi si sovrappone come il più spontaneo dei déjà–vu. Del resto, Paranoid Park è pervaso da una fattura fortemente connotata, impossibile da ricondurre ad altri se non al regista di Portland. Fotografia, movimenti di macchina, componente sonora, tutto è chiaramente riconoscibile. Anche lo sviluppo della trama (l’adolescente Alex uccide involontariamente una guardia ferroviaria) è decostruito in nome di quell’assenza del Tempo e della logica narrativa che ha scandito la recente   Regista indipendente, Gus Van Sant ancora una volta con “Paranoid Park” propone il suo modo di fare cinema, con un linguaggio essenziale e diretto, sempre fedele ai suoi classici canoni stilistici, caratteristici del cinema siglato Van Sant, lucido, trasparente e reale nel suo sguardo sulle problematiche esistenziali di natura sociale. Il mondo dei giovani adolescenti è quel mondo che Van Sant scruta ed osserva. Mette a nudo i vuoti affettivi, i comportamenti fuori dalle regole, i dilemmi della solitudine, le incomprensioni identitarie, la ricerca continua nel credere in stimoli che diano senso al quotidiano. Così Van Sant dirige “Paranoid Park”. Ispirandosi al romanzo di Blake Nelson, analizza, attraverso la figura del sedicenne Alex (Gabe Nevins), il mondo malinconico e solitario degli adolescenti. Ragazzi con problematiche a volte più grandi di loro
 
 
 
produzione di Van Sant (“Gerry” compreso): i suoi film, più che storie, continuano a essere rielaborazioni. Ma al di là del puro piacere spettatoriale di un riconoscimento della forma, è innegabile concedere al regista la coerenza della sua rappresentazione. Paranoid Park, comunque lo si veda, è di fatto un lavoro notevole. A partire dalla scelta dei supporti tecnici utilizzati (pellicola 35 mm con inserti in super 8, che grazie al ralenti offrono momenti visivamente molto belli durante le evoluzioni degli skaters). Le inquadrature sono spesso attraversate da un insistito fuori-fuoco, dal cui sfondo la figura di Alex emerge sbigottita e indolente. La colonna sonora (che mescola Elliot Smith, Beethoven e Nino Rota) diviene componente complemetare e necessaria, poiché il suo utilizzo, spesso contrappuntistico, ammanta le immagini con sfumature imprescindibili. Il linguaggio cinematografico di Paranoid Park è un libretto di istruzioni per l’uso: ogni punto, se riconosciuto, permette una comprensione più rotonda di ciò che si anima sullo schermo. Pochi come Van Sant sono ancora in grado di dividere (soprattutto dopo Cannes 2003). C’è chi parla di sguardo da entomologo. Freddo, chirurgico, necessario. E chi lo accusa di essere impegnato nella ricerca spasmodica dello Stile: strumento quanto mai fuorviante e improprio (proprio per la soggettività di fruizione che caratterizza opere come Paranoid Park), il voto è la vigliacca media tra i due opposti.





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  impossibili da gestire da soli, ansiosi in una continua ricerca di qualcuno che possa ascoltare le loro richieste d’aiuto. Alex è un adolescente di Portland, Oregon. Pantaloni jeans larghi, portati senza cintura, felpa con cappuccio, skateboard nella mano destra. Il ragazzo vive momenti esistenziali di forte disagio e solitudine interiore. Matrimonio dei genitori alla deriva. In assenza delle figure genitoriali, il mondo dei pari, con cui condivide la passione per lo skateboard, è il suo unico spazio di rifugio. Questo mondo giovanile si compatta appunto attraverso credenze comuni, azioni estreme, condivisione di comportamenti eccitanti ed al limite tra il pericolo ed il perverso. Alex condivide i suoi momenti con altri skateboarders, roteando sulla sua tavola in acrobazie spettacolari nel Paranoid Park, luogo frequentato da individui con problematiche soffocate, ma dove Alex vive una dimensione quasi sospesa, distaccata dal reale, che lo sottrae al suo mondo di adolescente infelice e svogliato. Lì sperimenterà una triste e tragica esperienza come artefice involontario della morte accidentale di un guardiano dello scalo merci, finito con il corpo tagliato in due da un treno sopraggiunto all’improvviso. Gus Van Sant riesce a far scorrere una narrazione filmica efficiente e compiuta, pur avvalendosi di una scarna essenzialità di elementi comunicativi, che, al di là delle caratteristiche tecnico retoriche imposte dallo specifico linguaggio, gli ha permesso di raggiungere una scrittura con cui aprirsi ad un acuto sondaggio di questo mondo adolescenziale. Camera a spalla, movimenti di macchina, inquadrature con piano americano e primissimo piano, scelta alternata della messa a fuoco giocando tra l’8mm ed il 35mm, colori smorti e tetri che muoiono in azzurri opacizzati e grigi sbiaditi, scene esaltate da un ralenti spiazzante, costituiscono alcuni degli elementi che giocano nella forza comunicativa del messaggio del film. Un messaggio quasi stanco e privo di speranza, se pensiamo a richiami precedenti lanciati con “Elephant”, “ Drugstore Cowboy” e “Belli e dannati” in cui Van Sant affonda lo sguardo nel mondo malato degli adolescenti, ormai sopraffatto da schemi valoriali vuoti. “Paranoid Park” si definisce, nella sua compiutezza di film denuncia di un modo di essere del mondo adolescenziale, un capolavoro stilistico nella sua semplicità ed insieme spettacolarità di linguaggio pacato che inchioda e sconvolge, nella sottintesa ma pervasiva drammaticità, la coscienza di una società a cui ormai è sfuggito di mano il fragile mondo dei figli adolescenti. L’inquadratura in primissimo piano del viso di Alex, codice facciale, maschera dello schermo, concentrato dell’intero corpo e nello stesso tempo viso portatore delle turbe segrete dell’anima, che Alex affiderà solo alle pagine di un quaderno, rappresenta la tragedia di questa modernità adolescenziale. Tutti codici non recitativi in senso tradizionale, ma che Gus Van Sant usa per una particolare forma comunicativa astratta, asettica, ininfluente e nel contempo spiazzatamene naturale. Scelte con acutezza, per il tema trattato, le musiche della colonna sonora (tra cui brani di Nino Rota, Elliott Smith, Henry Davies, Beethoven, Ethan Rose) fanno corpo, per affinità o contrasto, al tema visivo delle scene.



 
 
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