ORPHAN
 
locandina Orphan

recensione Orphan

 
A poca distanza dall'uscita dell'horror "The Orphanage" di Juan Antonio Bayona, un altro regista spagnolo, Jaume Collet-Serra, torna ad occuparsi di orfanotrofi e derivati con "Orphan". Al terzo mese di gravidanza, Kate (una Vera Farmiga che regge in modo convincente l'impalcatura narrativa del film), musicista sposata con John (Peter Sarsgaard), architetto, perde la propria bambina, che avrebbe desiderato chiamare Jessica. La famiglia Coleman, sebbene molto giovane, ha già attraversato difficili bufere: Kate ha perdonato alcune avventure extraconiugali di John, e John ha concesso una seconda possibilià a Kate, convinto (ma non troppo) che la moglie sia ormai uscita dal tunnel dell'alcolismo. La loro vita somiglia alla loro splendida casa nel Connecticut, battutta dalla neve e dal ghiaccio, ma solida e  
 
confortevole. Kate e John hanno già due figli, Daniel (Jimmy Bennet) e la piccola Maxine (Ariana Engineer), sordomuta, ma vorrebbero riversare su un bambino adottivo l'amore destinato al terzogenito perduto. Visitando un orfanotrofio sono colpiti da Esther (Isabelle Fuhrman), un bambina di nove anni, timida ma intelligentissima, che riesce subito a guadagnarsi la simpatia della coppia. Dal passato di Esther   recensione Orphan
emergono confusi frammenti: è russa e i suoi genitori sono scampati ad un incendio, da cui lei si è salvata miracolosamente. Entrata a far parte della famiglia Coleman, Esther inizia ad "infettare" come un virus le relazioni delle persone cui ci avvicina: riesce ad insinuare sospetti tra Kate e John, riesumando vecchi rancori, sembra voler attirare su di sé l'affetto destinato a Danny e Maxine, e si vendica violentemente di alcuni episodi di bullismo di cui rimane vittima a scuola. La prima a farne le spese è la piccola Brenda, colpevole di averle buttato all'aria la Bibbia. Esther la spinge da uno scivolo, riuscendo quasi ad ucciderla. Poi è la volta di suor Abigail (Cch Pounder), rea di aver scoperto che tutto il passato di Esther è, fin troppo casualmente, disseminato di strani incidenti, morti accidentali, tragedie e conflitti relazionali. Esther punirà la sua curiosità fracassandole la testa a colpi di martello. Anche la piccola Maxine rimane subito vittima dei suoi ricatti e Daniel, che ha sempre guardato con sospetto i comportamenti di Esther, perde quasi la vita cadendo dalla casa sull'albero, incendiata proprio da Esther. La ragnatela tessuta dal piccolo demonietto si dispiega mortalmente sulla famiglia Coleman: solo John sembra preservato dalla sua malvagità. L'intento di Eshter è chiaro: distruggere la famiglia Coleman e rimanere sola con John. Ma Kate, insospettita da Esther, comincia ad indagare nel suo passato. Risalendo retrospettivamente le tappe della sua vita, arriva al Saarne Institute, in Estonia: non un orfanotrofio, ma una clinica psichiatrica. Qui, il dottor Varava (Karel Roden), un medico che ha avuto in cura Esther, le racconterà tutta la verità. Ma ormai sarà troppo tardi. La pellicola scorre piacevolmente. Il regista barcellonese dissemina sapientemente qua e là le trovate più classiche dei film horror: la camera che si avvicina alle spalle, improvvise apparizioni di personaggi da dietro l'angolo e altrettanto improvvise impennate dell'audio. La trama, architettata con maestria dallo sceneggiatore David Leslie Johnson, sembra accompagnare inesorabilmente lo spettatore verso la convinzione che Esther sia l'ennesimo bambino di celluloide posseduto da Satana, o giù di lì. Proprio quando ci si convince di avere di fronte il solito film horror, basato su trite strategie narrative, la pellicola inizia a stupire. Gli ultimi venti minuti del film (in tutto due ore che non conoscono il minimo accenno di noia) rivelano che Orphan è una meccanismo perfetto, un film intelligente, in cui la cura dei particolari e il ritmo delle scene disinnescano il sospetto, spesso affiorante, di essere di fronte ad un film "già visto". Perfino i titoli di coda sono un gioiello ben confezionato: un film nel film che convince ad indugiare piacevolmente in poltrona fino all'ultimo fotogramma.

(di Daniele Piccini)


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