ONDE
 

onde - recensione

 
"Onde" parla di due diversi. Luca, un ragazzo cieco (la parola “non vedente” non viene mai pronunciata nel film) che nella vita fa il musicista, e Francesca, giovane donna con una grande voglia rossastra sul volto che non riesce ad accettare questo suo difetto, se di difetto si può parlare. Genova, città di mare ma in cui il mare non si vede, con i suoi carugi e i suoi rumori sarà la città in grado di far nascere tra di loro un amore difficile e sofferto, solcato dal continuo sfuggire di Francesca. Nervosismi, insicurezze, accessi d’ira improvvisi funestano il rapporto fra i due, che rimane sempre instabile, sospeso tra pura emotività e tremante repulsione. La distanza che la ragazza mantiene dolorosamente trova una giustificazione che è unicamente mentale, intima e come tale attraversata da una frustrante imponderabilità. La storia,  
 
raccontata senza pietismo alcuno, ha il pregio di toccare tematiche tanto difficili quanto consuete con uno stile sobrio e rigoroso, che programmaticamente non concede nulla allo spettatore. In realtà ciò che più interessa è la ricerca sul suono: musica e rumori sono indagati nel loro significato filmico (operazione nient’affatto comune) quasi come si istituisse un legame particolarissimo tra onde sonore e psiche  
umana. L’intreccio di cacofonie, musiche elettroniche, rumori ambientali risulta notevolmente approfondito, testimonianza questa – da parte di un autore che ha realizzato più di trenta videoclip – di una concezione tutt’altro che banale del rapporto ascolto/visione. "Onde" è dunque un film da consigliare a chi vuole avvicinarsi ad un’opera che racconta con stile un amore antispettacolare, a chi è affascinato dalle suggestioni foniche e a chi vuol vedere un giovane autore italiano (Francesco Fei), che si è quasi interamente autoprodotto il film e che ha avuto la forza di voler mettere in gioco la propria autorialità in un mercato che considera ostile. Purtroppo però c’è il sospetto che la ricerca sull’immagine (sequenze oniriche, videocamere a circuito chiuso, buchi neri, visioni marine ecc.) sia ancora un po’ troppo debitrice nei confronti di importanti lezioni precedenti (Antonioni, Wenders, Kubrick, Herzog…) e che non spicchi mai il volo verso un’indipendenza autentica. In psicanalisi si direbbe che Fei deve ancora “autorizzarsi”, ma questo è il suo primo lungometraggio e ci sono buoni motivi per sperare che in futuro saprà “uccidere i propri padri”. In fin dei conti un autore che già dal suo debutto dimostra capacità tecnica, competenza culturale, sensibilità emotiva e coraggio produttivo merita fiducia e stima da parte di chi si occupa di cinema e speriamo anche la dovuta attenzione da parte del pubblico.

(di Marco Santello )

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