ONCE
 

recensione Once

 
La musica sta diventando tema forte e centrale in moltissimo cinema contemporaneo. Concerti ripresi e sezionati in modo lirico (Scorsese con “Shine a Light”), biografie “creative” sui musicisti-poeti del secolo scorso (Bob Dylan in “Io non sono qui”, i Beatles in “Across the Universe”). “Once” prova a essere qualcosa di diverso. La musica come prova dell’esistente, come solitudine, ma anche come sorriso da versare su una realtà fin troppo aspra. Le canzoni, un po’ folk, un po’ ballata irlandese, segnano il tempo, impastano le immagini di venature delicate, accoglienti, poetiche. Lo spaesamento esistenziale di Glen (aggiustatore di aspirapolveri, musicista all’angolo delle strade) è reso con efficacia attraverso le note della sua chitarra malandata. Così come l’incontro con Markéta (immigrata ceca che vende rose, ma che ha le dita  
 
che danzano dolci sui tasti del pianoforte) si apre a tenerezze che sono accenni, senza parole e senza insistenze. Carney gira in digitale sporco, per portarci in una Dublino stanca, annebbiata, molto sola. E verrebbe voglia di saperne di più, verrebbe voglia che quelle immagini si fermassero, ancora un poco, a raccontare. E invece la musica e le (belle) canzoni prendono il sopravvento, ci consolano, ma rischiano di  
portarci troppo lontano. “Once” è un film piccolo, ma luminoso, semplice (fin troppo, forse), ma irresistibilmente dolce. Rigoroso nelle scelte, attento nelle delicatezze. Carney si fa prendere la mano solo a tratti (le immagini-ricordi, in finto super8, del passato amoroso di Glen sono piuttosto prevedibili). La Sacher Distribuzione, ancora una volta, dimostra coraggio. Però, forse, c’erano urgenze maggiori. “Once” era al Festival di Torino, insieme a, per esempio, il coreano “The Railroad” o l’altro irlandese “Garage”. Opere decisamente più intense e, ora, decisamente più invisibili.


(recensione di Mattia Mariotti )


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