NINJA ASSASSIN
 
locandina ninja assassin

recensione ninja assassin

 
Date le premesse "Ninja assassin" aveva tutte le carte in regola per diventare l'ultima vaccata americana in fatto di action movie in salsa orientale. Invece dopo "V per vendetta" (altro film - sulla carta - alquanto rischioso) i Wachowski brothers alla produzione e James McTeigue in sala regia si confermano un marchio che è quasi una garanzia. Impresa non semplice, in gran parte riuscita, quella di rinverdire i fasti di un leggendario sottogenere di film sulle arti marziali, quello cioè legato al ninjutsu e al guerriero imbattibile che sa dominare e maneggiare tale insieme di tecniche, ovverosia il ninja. Come Tarantino più di Tarantino. Se Tarantino infatti in "Kill Bill" ne fa un discorso autoriale, l'operazione di McTeigue è un'operazione filologicamente più rigorosa. Nessuna ironia, nessun citazionismo, McTeigue non ci vuole  
 
parlare di sé né tantomeno delle sue preferenze cinefile. Non c'è neppure l'iperbolico gusto macabro e grottesco di "Ichi the killer", altro riferimento recente a cui il regista deve aver dato un occhio. "Ninja assassin" è un film che prende sul serio la materia che narra e si accosta ad essa con devozione. In questo senso va letta la partecipazione de "L'invincibile ninja" Sho Kosugi, un mito per i cultori del genere, qua nel   recensione ninja assassin
ruolo del villain spietato, l'anziano e insuperato maestro, padre padrone dei suoi figli-allievi allevati ed educati secondo le inflessibili leggi della disciplina basata su sacrificio, privazione e dedizione. Il che non vuol dire che non vi siano combattimenti funambolici e sangue a fiumi, lame affilatissime che mozzano teste e braccia, stellette che volano e sibilano, carni da macello macellate. I ninja sono quello che devono essere, letteralmente "ombre assassine", ire di dio infallibili, furie della natura che emergono dal buio e nel buio spariscono. Temprati nel corpo ma ben prima nella mente. Come già ampiamente dimostrato in "V per vendetta" McTeigue ribadisce di trovarsi più che a sua agio nelle scene d'azione (su tutte si veda il combattimento notturno in mezzo ad una strada trafficatissima) coreografate col giusto senso dello spettacolo, sostenute da una consistente colonna sonora, ma senza indugiare oltre il limite del consentito sul versante dell'inverosimile e del ricorso invadente al digitale. Latita invece la componente drammatica e sentimentale, quella fondamentale per far immedesimare lo spettatore col protagonista, il quale - a onor del vero - avendo raggiunto lo stato d' "apatheia" non può, per ovvie ragioni, tradire emozioni. Le motivazioni che lo muovono ci sono e sono ben chiare. E' sempre la vendetta a fare da motore alla vicenda. Dietro spessi strati di slasher e gore però, manca quel substrato emozionale in grado di dare corpo tangibile ai tormenti e di fare della vendetta qualcosa di non solo nominale ma anche di realmente fattivo, qualcosa che sappia innervare i comportamenti di linfa e sostanza. Al centro, stella silenziosa e solitaria, l'attore, ballerino e cantante coreano Rain, nei panni di Raizo, bambino rapito dal clan Ozunu per farne una macchina da guerra e ora costretto per amore di una donna a ribellarsi e sconfiggere la sua vecchia famiglia. Di lui tutto si può dire ma non certo che gli manchi il phisique du role. A torso nudo, ricoperto di sangue, pettorali e addominali scolpiti solcati da profonde ferite da taglio, magari è davvero lui il così tante volte invocato degno erede di Bruce Lee.

(di Mirko Nottoli)


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