NESSUNA QUALITA' AGLI EROI
 

recensione

 
Per il cinema d’autore il giudizio della critica spesso è largamente più importante del giudizio del pubblico. È stato, infatti, grazie al plauso dei cosiddetti opinion leader che il film precedente di Paolo Franchi “La spettatrice” ha avuto il risalto che meritava, diventando presenza fissa ai festival di mezzo pianeta e riuscendo ad essere distribuito perfino in Australia. Ma la stampa cinematografica è spietata, soprattutto ai festival, e se nell’opera seconda qualcosa non va, allora si può cadere a picco in men che non si dica. Questo è stato il destino di “Nessuna qualità agli eroi” all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Nessuno dei film in concorso è stato accolto in sala stampa con tanta freddezza: regista serissimo e attori ammutoliti da una delusione che non si aspettavano. Ma perché è andata a finire così? Che cosa c’era di così  
 
sbagliato nel film? Vediamo la trama. Bruno, un uomo di origine ginevrina che vive da molto in Italia, riceve dal medico la notizia di essere sterile, condannato perciò ad essere sempre figlio. Figlio, tra l’altro, di un famoso artista contemporaneo con il quale ha avuto sempre un conflitto profondo. Bruno (Bruno Todeschini) è, oltretutto, sommerso dai debiti, contratti con un apparentemente placido banchiere che  
sembra contribuire a togliergli la pace che desidera: una vita serena con l’adorata moglie Anne (Irène Jacob), ignara della sterilità del marito. Poi uno strano ragazzo (Elio Germano), con frequenti crisi di panico e uno sguardo inquieto fino a rasentare la psicosi, fa capolino nelle sue tormentate giornate. È il figlio del banchiere inspiegabilmente svanito proprio in corrispondenza della comparsa del figlio Luca nella vita di Bruno. Il ragazzo, scosso da un dolore incolmabile che tenta di tamponare (o accentuare?) con una vita sessuale dall’aspetto malsano (le scene erotiche sono molto espilcite), lo pedina fino ad ossessionarlo. Il motivo di tutto ciò e il vero legame tra gli eventi e tra i personaggi verrà mostrato nel finale rivelatore. Tuttavia la verosimiglianza dei comportamenti o dei personaggi è di poco interesse in “Nessuna qualità agli eroi” se si legge il film con la sua vera chiave, cioè il simbolismo psicanalitico. Lo dice proprio Paolo Franchi, laureato in Lettere con indirizzo in Critica Psicanalitica dell’Arte. Quindi il film sarebbe tutto da sciogliere con alla mano i saggi di Melanie Klein e dei suoi epigoni, destreggiandosi tra i concetti di invidia, relazione oggettuale e posizioni nelle fasi dello sviluppo psicosessuale. Cosa c’è di male in tutto questo? Niente, anzi! La storia del cinema d’autore è costellata di opere che hanno reso proficuo il rapporto tra cinema e psicanalisi, a partire da “Un chien andalou” di Buñuel, fino ad arrivare al nostro Bellocchio, che per anni ha addirittura scritto le sceneggiature con lo psichiatra Massimo Fagioli. Che c’è allora che non va nel film di Franchi? Non va bene il lavoro sul colore bianco e la sua relazione con l’arte visiva monocromatica? Non vanno bene il sogno, la psicosi, la malattia, il malessere indagati in nelle loro implicazioni e rapporti reciproci? Va tutto bene. Ma manca l’ispirazione! È tutto perfetto e impeccabile come un saggio di epistemologia, ma manca il fuoco che arde. Così, anche lo spettatore più interessato a questo tipo cinema resta distaccato di fronte ad un opera intellettualmente intrigante ma fredda come un compiaciuto esercizio di stile.

(recensione di Marco Santello )

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