NEIL YOUNG: HEART OF GOLD
 

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Cos’hanno in comune Jonathan Demme, il regista de “Il silenzio degli innocenti”, e Neil Young, uno dei più grandi artisti della storia della musica rock? Due cose: la collaborazione tra i due ai tempi di “Philadelphia” (la cui colonna sonora venne pubblicata nel gennaio del 1994) e questo “Neil Young: Heart of Gold” che racconta il concerto “unplugged” che il cantautore ha tenuto quasi un anno fa a Nashville. Il film-documentario rispecchia sicuramente il suo protagonista nella fase country: coraggioso, moderato, buono, letale. Ma si ritrova irrimediabilmente sorpassato dal ritorno del solitario e un po’ sballato Young alle sonorità rock, avvenuto proprio in quest’ultimo periodo. La fusione cantante-regista si può comunque dire riuscita. Dal prologo-intervista tra le vie di una Nashville poco “Altmaniana”  
 
all’arena-setting (il Ryman Auditorium), una sorta di scuderia della country music, dove il canadese Young sfodera una serie di cavalli da battaglia (come, guarda caso, “Heart of Gold”) lasciando spazio anche ad alcune tracce del recentissimo “Prairie Wind”. Un interessante esperimento di cinema oltre il cinema. I fan potranno commuoversi con uno dei momenti più toccanti dell’esibizione acustica, quando Young ricorda  
il padre appena scomparso. La parola “documento” rimanda a un pensiero positivista, che non discute le cose ma le apprende, le cataloga, le divulga. Siamo nell’ordine della comunicazione, della messa in rete di informazioni. Lo sguardo poggiato sul reale invece non può che essere uno sguardo critico. Uno sguardo che indaga il suo oggetto. Lo cerca, ne definisce i confini, gli fa la posta. Come un cacciatore, lo sente. Lo aspetta dove è probabile che sia. In una caccia ciò che conta è la tecnica. Ogni cacciatore nel tempo elabora un mestiere. Nel cinema viene chiamato stile. Cinema che aiuta la musica. Musica che fotografa il ricordo paterno dell’arte e della crescita. Il tono nasale del reaganiano redento Young varca i confini spazio-temporali e ci offre armi, grimaldelli e sguardi per mettere in comunicazione il cinema con un’America altra. Tra alti e bassi. Come “On the beach”, un disco bellissimo e spettrale, scarnificato e affilato come la lama di un rasoio. Solo che qui non si vuole disorientare il pubblico. L’immagine di Neil Young è piuttosto quella di un uomo che, munito di chitarra e armonica, non ha paura di sbagliare. Perché quando fa centro, è capace di farti fermare il cuore. (“I want to live, I want to give. I've been a miner for a Heart of Gold…”).

(di Bruno Trigo )

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