MORIRE DI LAVORO
 

recensione morire di lavoro

 
Da quando tirare su un muro è diventata una prova di sopravvivenza? Dopo “SignorinaEffe” di Wilma Labate e il film-documento “In fabbrica” di Francesca Comencini, ecco “Morire di lavoro” di Daniele Segre, che ne è anche produttore. Né film né documentario, sullo sfondo nero fisso parte la cronaca di volti logori di lavoratori che raccontano la loro storia, la loro vita. Sono edili e familiari di edili, che ci guardano dritti negli occhi e ci parlano dei loro morti. Di figli, mariti, amici, che hanno lasciato la vita sul posto di lavoro per misure di sicurezza che non vengono adottate. Ci parlano di telefonate che sono come un pugno nello stomaco e danno notizie che non si dovrebbero ricevere, di datori di lavoro che si preoccupano di minimizzare l’accaduto, di uomini (ma anche donne) quasi sfruttati costretti a lavorare in  
 
nero, con tutto quello che questo comporta, per poter portare a casa un pezzo di pane. “Morire di lavoro” non ci dice cose nuove, né ha un taglio molto diverso dai servizi che ci vengono offerti in certi salotti televisivi dalle pretese più o meno serie. Ma dà voce a chi non può parlare perché non esiste, ai fantasmi della nostra società, senza mediazione tra noi e ‘loro’. Hai di fronte volti che comunicano molto prima e  
molto più delle parole, perché in ogni sguardo e in ogni voce scorgi la vita di ciascuno di loro. C’è il padre di famiglia che vorrebbe poter esaudire i desideri dei suo bambini, c’è una donna che ha perso prima il figlio e poi il marito a distanza di un anno. C’è lo studente che arriva dal Senegal, che ha imparato a lavorare guardando i suoi colleghi. C’è il ragazzo che nonostante l’incidente, ha voglia di tornare in cantiere perché deve, perché ne ha bisogno. L’inno di Mameli, ironicamente, apre e chiude il film. Ma cosa fa questo Paese per i suoi cittadini, se se ne ricorda poco e male solo quando avvengono gravi tragedie, come quella della ThyssenKrupp? Lo sfondo nero rimane fisso e sempre uguale dall’inizio alla fine, perché si muore allo stesso modo in tutta l’Italia, a Nord come al Sud, a Torino come a Napoli, italiani e immigrati. Con la presentazione di questo film si è parlato di documentario necessario. Bene, aspettiamo di vedere allora questa necessità colmata al più presto.

(recensione di Giulia Mazza )

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