routine, intervallata soltanto dai messaggi registrati che la moglie, Tess Bell, gli invia dal pianeta azzurro. Ma la rigorosa efficienza dell'astronauta comincerà a vacillare: preda di mal di testa e allucinazioni, intraprenderà un cammino di consapevolezza e confronto con se stesso che, in sala, si traduce in novantacinque minuti di puro coinvolgimento. L'essenziale si riduce qui, i fili portanti della trama non sono certo intonsi: di storie simili ne è fornita la letteratura e, in minuscola parte, la cinematografia. Ma l'apparente semplicità narrativa, questa volta, non è un difetto. Vengono in mente i racconti di Fredric Brown, Philip K. Dick o Daniel Keyes, brevi ed essenziali. Equilibrati nel mostrare le mille sfaccettature di un unico evento. Ciò che colpisce di
Moon insomma è l'essenzialità, la pulizia visiva e narrativa, l'autosufficienza: "una gemma rara nel genere fantascientifico". E poi la mente corre a Kubrick. Il design della stazione lunare, l'insondabile nero del cosmo, le indecisioni robotiche di Gerty - fin troppo simili, anche se con un esito del tutto diverso, a quelle dell'onnisciente HAL-9000 - i tormenti di Sam e lo splendido ma desolato satellite terrestre, sono elementi così evocativi da non poter essere ignorati: deliberatamente utilizzati come tributo a tanta passata genialità. Per i nostalgici del genere o per i cacciatori di fantascienza pura,
Moon è un biglietto ben speso. Espande l'immaginazione, porta a riflettere e, tra luminescenze lunari e profondi neri cosmici, riesce a commuovere.
(di Marco Trani)