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Gengis Khan. Chi era
costui? Il condottiero
mongolo che riuscì
a conquistare più
terre di Alessandro
Magno o dell’Impero
Romano viene spesso
descritto dai libri
di scuola come un
sanguinario e un despota.
Ma si sa, la storia
la scrivono i vincitori
e vista la carenza
di materiale originale
e di biografie, la
letteratura occidentale
ha probabilmente raccontato
i fatti secondo il
proprio punto di vista.
Il regista russo Sergei
Bodrov (Il Prigioniero
del Caucaso) fin da
piccolo è sempre
stato affascinato
da questa figura e
da tempo si documentava
nella speranza di
poter raccontare al
cinema la vera storia
di Gengis Khan. Ne
esce il ritratto di
un uomo sfaccettato
e interessante: imprigionato,
umiliato, tradito,
non si è mai
dato per vinto. A
dargli forza furono
gli insegnamenti di
suo padre, assassinato
di fronte ai suoi |
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occhi
quando
aveva
solo
9 anni,
la fede
nel
dio
Tengri,
il dio
del
cielo
azzurro,
e soprattutto
l’amore
e il
sostegno
della
moglie
Borte.
Il soggetto
ideale
per
un film
epico
e avvincente
dove
si ritrovano
tutti
i grandi
temi:
amore,
vendetta,
grandi
battaglie,
integrità,
tradimento
e avventura.
Il film
è
girato
con
maestria
eppure
non
convince
fino
in fondo.
Complice
un doppiaggio
piatto
e un
adattamento
dei
dialoghi
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simile a quello
di una soap
opera, ma
anche l’indecisione
tra la volontà
di raccontare
una storia
o una leggenda.
Ci si rende
conto che
è difficile
trovare un
equilibrio
tra la vastità
di congetture
sulla vita
di Gengis
Kahn, ma qui
sembra mancare
una vera direzione.
Si propende
evidentemente
per la leggenda:
l’esagerata
benevolenza
degli dei,
i numerosi
anni di prigionia
ben al di
sopra di ogni
sopportazione
umana e l’epica
delle battaglie
concorrono
a delineare
un racconto
che si avvicina
molto a quello
di un eroe
mitologico.
D’altra
parte, l’attaccamento
alla propria
famiglia,
la grande
modernità
della storia
d’amore
con Borte
(Khulan Chuluun)
e la competitività
nell’amicizia
con Jamukha
(Honglei Sun)
rendono il
giovane Temugin
(Tadanobu
Asano), il
futuro Gengis
Khan, un uomo
tra gli uomini.
Cinematograficamente
parlando le
battaglie
sono rese
magistralmente,
ma senza un
vero guizzo
innovativo.
Sembra che,
dopo Il Gladiatore,
chiunque voglia
cimentarsi
con questo
tipo di riprese,
segua lo stile
di Ridley
Scott usando
la stessa
tecnica e
lo stesso
tipo di ritmo.
La parte migliore
del film risiede
nel mostrare
il rapporto
tra gli uomini
e il loro
ambiente.
Girato nei
luoghi più
remoti della
Mongolia,
gli accampamenti,
i viaggi a
cavallo, le
distese nevose
e le praterie
solcate dai
passi di un
bambino appagano
gli occhi
e lo spirito.
Ma anche questo
non basta.
Resta comunque
il ritratto
della formazione
di un uomo
con tutte
le sue sfaccettature.
Un marito
devoto, un
fine uomo
politico e
un ottimo
stratega militare
che nel 1200
aveva anticipato
i dittatori
del 20^ secolo:
“porterò
unione e legge
tra le tribù
a costo di
uccidere metà
dei mongoli,
per pacificare
l’altra
metà”
promette di
fronte al
suo dio. E
ci riuscì.
(recensione
di Sara
Sagrati)
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