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Non è certo
una “black comedy”,
come si legge nel
pressbook di presentazione.
Perché non
è “black”
(semmai bambinescamente
splatter) e non è
“comedy”
(semmai una sgangherata
serie di sketch a
“La sai l’ultima?”).
E proprio la parentela,
strettissima, con
la televisione e i
suoi programmi più
giovanilisticamente
“di spicco”
pare il tratto più
smaccato e preoccupante.
E d’altra parte
è sufficiente
scorrere i curriculum
di regista (“Passaparola”)
e sceneggiatori (“Festivalbar”,
“Popstar”)
per rendersi conto
che è più
di una vaga impressione.
La vicenda non è
che un pretesto, tanto
che scomodare illustri
predecessori (Pasolini,
il Buñuel de
“L’angelo
sterminatore”)
pare davvero ingiusto
e di cattivo gusto.
Perché non
è certo uno
«sguardo satirico,
corrosivo» (ancora
dal pressbook), quanto
piuttosto una sequela
scara- |
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ventata
con
rara
grossolanità
su uno
schermo
che
pare
più
che
“avanguardistico”
decisamente
amatoriale
(e certo
non
aiutano
attori
cani,
Pozzetto
junior
su tutti).
Impreziosiscono
il tutto
un utilizzo
massiccio
e sconsiderato
di effett(acc)i
digitali,
che
simulano
movimenti
di macchina
da mal
di mare,
o vorrebbero
“giocare”
con
lo spettatore,
come
nel
momento
in cui
appaiono
in sovrimpressione
i prezzi
dei
vestiti
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indossati
dalla protagonista
(ma quanto
è kitsch,
ma quanto
è inutile).
L’esito
è cinema
(cinema?)
che davvero
non si può
salvare. Pretestuoso
nel voler
far sorridere
(i personaggi
sono macchiette
piccole piccole),
kitsch nel
voler far
riflettere
(i soldi sono
il male, tutto
si può
comprare:
sai che novità).
Unico primato:
contiene i
titoli di
testa peggiori
(per inutilità
e gigioneria)
dell’intera
storia del
cinema.
(recensione
di Mattia
Mariotti
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