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MILANO
PALERMO - IL RITORNO |
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recensione milano
palermo il ritorno
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Dopo Palermo-Milano
ci sono voluti undici
anni per Bova &
Co. per compiere il
tragitto inverso,
di nuovo per scortare
Giancarlo Giannini
ex contabile di cosa
nostra, finalmente
uscito dal carcere.
Undici anni per dimostrare
che dagli errori non
si impara nulla. Claudio
Fragasso crede ancora
di essere Michael
Mann ad Hollywood
con De Niro e Pacino,
invece si trova a
Tor Vergata con Ricky
Memphis e tutto quello
che può, tutto
che quello che riesce,
è far sgommare
un’Alfa in mezzo
ad una strada deserta,
con Raoul Bova determinato
a reprimere la rabbia,
espressivo come una
putrella di cemento
e Giancarlo Giannini
sempre un passo oltre
il limite di sopportazione
che si dimena, si
dispera, si accartoccia
la faccia, sbrodola
fuori da se stesso.
Undici anni e ritroviamo
lo stesso pressapochismo
del primo episodio,
che |
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se
non
fosse
disastroso
farebbe
anche
tenerezza,
per
come
renda
manifesto
l’annoso
divario
che
c’è
tra
l’ispirazione
e la
sua
realizzazione,
tra
ciò
che
si vorrebbe
e ciò
che
realmente
si può.
Fragasso
continua
ad ammiccare
all’action-movie
americano
con
iniezione
di dosi
massicce
di ralenty,
esplosioni,
salti,
capriole
e gran
rullare
di percussioni,
ma anche
di fronte
alla
sparatoria
più
iperbolica
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sembra sempre
di assistere
ad un gruppo
di bambini
che giocano
al parco,
con le pistole
di plastica
che fanno
bang bang
e chi non
ha quelle
di plastica
usa le mani
e fa bang
bang con la
voce. Il concetto
di finzione
scenica è
il medesimo.
E’ l’
“ecsion
muvi de noantri”
segnato da
quel tipico
dilettantismo
provincialotto
elevato a
sistema, che
va dalla regia,
agli attori,
alla sceneggiatura
scritta coi
piedi con
tutti che
sembrano lì
per caso,
che corrono
avanti e indietro
allo stato
brado: Raoul
Bova è
un genio strategico
perché
in un’imboscata
manda avanti
prima un’auto
e poi l’altra;
Giannini è
un altro genio
perché
scrive su
un foglio
luogo via
e cap dell’appuntamento
e lo getta
in terra di
nascosto,
e poi quando
gli viene
chiesto di
inserire il
codice per
trasferire
i soldi, ne
inserisce
uno sbagliato;
rapiscono
un bambino
in Toscana
e una attimo
dopo si ritrova
teletrasportato
in Sicilia
a scimmiottare
“Io
non ho paura”.
Aleggia dappertutto
un’atmosfera
casalinga
impregnata
di tarallucci
e vino dove
i piccoli
giocano a
fare i grandi
accumulando
una quantità
enorme di
ingenui modelli
prestampati:
il boss Enrico
Lo Verso con
finta cicatrice
sul labbro
e finto pelliccione
di bue muschiato;
gli scagnozzi
del boss con
mitra, auricolari,
occhiali scuri
e chewing-gum;
l’avvocato
corrotto smascherato
da una telefonata
in quattro
secondi netti;
il poliziotto
scavezzacollo
Libero di
Rienzo che
non ha capito
nemmeno lui
perché
è lì
a pronunciare
battute fuori
luogo, protagonista
di un inseguimento
in moto tra
i peggiori
mai visti,
di quelli
che andrebbero
proiettati
nelle scuole
di cinema
per imparare
come non si
deve girare
un film. Il
migliore di
tutti è
Ricky Memphis
che non recita
e per questo
è il
migliore,
distilla saggezza
e gronda amicizia
virile. Sua
la battuta
destinata
a rimanere
incisa nella
roccia: a
Bova che gli
dice: “siamo
soli”,
lui risponde
“come
sempre”!
E’ l’
unico ad aver
imparato a
fare di necessità
virtù.
Lo imparassero
anche gli
altri.
(recensione
di Mirko
Nottoli
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palermo il ritorno"! |
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