MEIN FUHRER
 

recensione mein fuhrer

 
Sarà nelle sale italiane a novembre il film che in Germania ha diviso le platee e i critici. “Mein Fuhrer”, una commedia non proprio esilarante ma gradevole incentrata sul personaggio di Hitler, del regista Dani Levy, un ebreo da anni residente in Germania, terra che i suoi genitori dovettero abbandonare per rifugiarsi in Svizzera durante la dittatura nazista. La vicenda si svolge a Berlino nel dicembre 1944, quando ormai la speranza di vincere la guerra è perduta per il regime di Hitler. Ma il ministro della Propaganda Goebbles (il bravo Sylvester Groth) non rinuncia al tentativo di risollevare lo spirito del popolo tedesco facendo ricomparire in pubblico il dittatore per un energico discorso alla nazione che, nelle intenzioni del ministro, dovrebbe appunto rinvigorire lo spirito nazista per cercare di rovesciare gli esiti ormai nefasti della  
 
guerra. Ma c’è un problema, Hitler (interpretato con qualche caduta di troppo nella macchietta da Helge Schneider), malato e depresso, addirittura folle, si tiene lontano da qualunque apparizione in pubblico. Goebbles per cercare di riportarlo alla realtà escogita di liberare dal campo di sterminio in cui è rinchiuso con i suoi familiari, il vecchio insegnante di recitazione del Fuhrer, l’ebreo Adolf Grunbaum (il premio Oscar Ulrch  
Muhe). Questi viene sistemato con la famiglia nella Cancelleria del Reich, dove dovrà vedersela con un paziente per niente collaborativo e dal carattere mutevole. Solo cinque giorni mancano al fatidico discorso, dunque il tempo stringe e tentare di galvanizzare Hitler non è impresa facile. Ispirato a un libro di Alice Miller circa l’influenza che un’infanzia infelice avrebbe avuto sulla personalità distorta del Fuhrer, al film, che, lo ripetiamo, è gradevole, ma niente di più, manca la verve satirica, le corde su cui si muove sono più vicine alla comicità che alla satira pungente di cui si sente la mancanza. Ha però il non trascurabile pregio di essere il primo film tedesco che tratta di Hitler in una commedia e non più soltanto nei toni di solito drammatici e tragici che il personaggio ha inevitabilmente, e giustamente, ispirato finora. In Germania i pareri sono a questo proposito discordi e la discussione sul film ha avuto toni assai polemici. Crediamo che poter ridere anche della più grande tragedia che l’umanità ha prodotto ai danni di se stessa oltre che, ovviamente, del popolo ebreo, sia un segno di maturità. Tornano in mente le polemiche che ha suscitato “La Vita è Bella” del nostro Benigni che però si muoveva lungo direttrici fiabesche. Va segnalata infine l’ottima prova, nei panni di Grunbaum, di Ulrich Mue, purtroppo scomparso nel mese di luglio di quest’anno, pochi mesi dopo aver ricevuto l’Oscar come miglior attore per l’interpretazione offerta in “Le Vite degli Altri”.

(recensione di Claudio Montatori)

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