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Frammenti di vite,
di amori, di solitudini.
Ci sono film che esulando
dalla “sola”
istanza diegetica
riescono a creare
una propria dimensione
emotiva. E’
questo il caso del
primo lavoro cinematografico,
della coppia di artisti
israeliani Etgar Keret
e Shira Geffen. Inizialmente
autori della sceneggiatura,
ben presto si rendono
conto che per rappresentare
le emozioni scaturite
sulla carta devono
obbligatoriamente
cimentarsi nella regia.
Obbiettivo raggiunto,
il film è un
originale groviglio
narrativo tenuto assieme
dalle vicende di personaggi
apparentemente normalissimi,
con storie normalissime
alle spalle. In una
quasi surreale Tel
Aviv i nostri si muovono
cercando di creare
ordine nelle loro
esistenze fatte di
instabilità,
a volte anche di sofferenze.
Si accorgeranno invece
di essere trasportati
dalla corrente come
meduse, appunto. |
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Alcuni
riusciranno
a prendere
coscienza
di questo
assunto
ma inevitabilmente
ad un
caro
prezzo,
altri
proseguiranno
ignari
a farsi
trascinare
da queste
trame
sotterranee
composte
da casualità,
coincidenze,
stereotipi
e destini.
Ecco
allora
in in
rassegna
le personali
esperienze
della
giovane
Batya
(Sarah
Adler),
cameriera
alle
prese
con
un passato
turbolento
ed una
misteriosa
bambina
arrivata
dal
mare,
della
sposa
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Keren e di
suo marito,
della domestica
filippina
Joy o ancora
dell’aspirante
fotografa.
Tutti personaggi
complessi,
difficili
ma per questo
affascinanti
e disarmanti,
quasi teatrali,
nell’innesto
scenico ove
sono inseriti.
Meduse è
un film narrativamente
complesso,
stratiforme,
e in più
di una scena
il senso di
smarrimento
è tangibile.
Qualche sequenza
in meno avrebbe
contribuito
a rendere
la visione
più
agevole e,
per quanto
possibile,
comprensibile.
Un cast emergente,
la maggior
parte degli
interpreti
è alla
prima apparizione
sul grande
schermo (
a parte l’ottima
Sarah Adler),
ci regalano
comunque una
buona recitazione
in un progetto
non immediatamente
prevedibile
come è
quello dei
due registi
israeliani.
Ed è
proprio in
questa instabilità,
in questo
rifiuto a
rinchiudere
il pubblico
in un dato
registro emotivo
che il film
trova una
sua unità.
(recensione
di Massimiliano
Micci )
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