MACHAN
 
locandina Machan

recensione Machan

 
Uberto Pasolini è prodigo e puntuale nel fornire la ragion d’essere del suo film: Machan è un’opera italiana girata nello Sri Lanka e destinata a un pubblico occidentale. La dichiarazione di intenti è chiara e trasparente, se vogliamo molto onesta, ma in fondo un po’ corriva. E innesca immediatamente la sensazione che gli aspetti più leggeri del film siano in realtà talmente pilotati da risultare posticci: possibile che Machan sia, in tutto e per tutto, vincolato dalla necessità di risultare appetibile ad un pubblico prestabilito? Possibile che la sua “delicatezza” nell’affrontare un tema ostico e scottante come l’immigrazione sia il risultato di una politica autoriale che, sin dalla genesi, passa al setaccio innanzitutto le modalità con cui dilettare i suoi futuri fruitori? Possibile che Machan sia, in fondo, una storiella più attenta a intrattenere che ad analizzare  
 
a capire, a interrogare (e interrogarsi)? Possibile, sì. E allora la visione di Machan accende nello spettatore consapevole tedio e insofferenza, soprattutto perché alcune scelte rappresentative risultano, per un prodotto simile, accessorie e pretenziose, come la rievocazione della (solita) storia realmente accaduta o l’intento pedagogico che serpeggia di continuo nella narrazione, ora per scuotere   recensione Machan
ora per commuovere, e che finisce per non fare né l’uno né l’altro. Non si biasima il regista, che ha fatto esattamente quello che aveva promesso, ma piuttosto lo schema di fondo di queste commediucce impegnate: con la vecchia scusa di far riflettere con un sorriso si svuotano di significato, si barricano nella loro mansuetudine, soddisfatte di imboccare una platea lontana con ciò che più l’aggrada.

(di Lorenzo Donghi )


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