LO STRAVAGANTE MONDO DI GREENBERG
 
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Come lui c'è solo lui. Ben Stiller, epitome di tutte le macchiette hollywoodiane, non è solo l'icona indiscussa della commedia più o meno demenziale dagli anni Novanta a oggi. E' anche una delle maschere più espressive e versatili del microcosmo cinematografico a stelle e strisce (e non solo). E' un attore nel senso più atavico e letterale del termine: si identifica con il suo "agire", con la sua mimica esplosiva e con il suo carnet di smorfie e mossette. Talmente iconico, nel suo essere solo e soltanto Ben Stiller, da risultare quasi troppo adatto per il ruolo di Roger Greenberg. Che è una di quelle invenzioni tutte cinematografiche, sintesi caricaturale di una teoria infinita di nevrosi, dominatore assoluto della scena. La storia è semplice. Verrebbe da pensare: è solo un pretesto. I Greenberg lasciano Los Angeles per una  
 
vacanza in Vietnam, cavalcando mode e suggestioni tipiche di quell'universo indie e radical chic che nella verde California trova il suo epicentro. Durante la loro assenza, la giovane assistente Florence Marr si incarica di badare alla villa di famiglia. E qui entra in rotta di collisione con lo zio Roger, un'irriducibile mina vagante. Quarantenne in lite con l'anagrafe, Roger brancola da un estremo all'altro della sua vita di   recensione lo stravagante mondo di greenberg
scapolotto seminando gaffe e riciclando sogni stantii, senza toccare mai un approdo. Attratto dalla dolcezza di Florence, Roger azzarda un approccio maldestro. Nel frattempo, tenta di recuperare i rapporti con l'ex fidanzata Beth e con l'ex migliore amico, Ivan. E' un collezionista di sogni infranti e di capitoli chiusi, Roger Greenberg. E dal confronto con Florence emerge tutta la sua inconcludenza, il suo pessimo tempismo, la cecità e l'egocentrismo. Ma anche, inevitabilmente, la sua verve comica, la sfacciataggine dell'improvvisatore, l'ottimismo incallito del sognatore. Con un'attenzione premurosa al personaggio, il regista Noah Baumbach delinea un percorso umano che non ascende ma ristagna: l'azione di regia è più fotografica che narrativa. La forza del film, tuttavia, sta proprio nell'indagine meticolosa di un prototipo sociale (il disadattato vetero-hippie incrociato col "bamboccione" ultramoderno), nella disamina spietata e divertente di un carattere che, nonostanze gli eccessi cinematografici, attinge a situazioni e psicologie collaudate. L'unico limite di Roger Greenberg è il suo interprete. Sempre che la troppa esattezza interpretativa possa considerarsi un handicap. Ben Stiller era il candidato ideale al ruolo, ma anche il candidato ideale a offuscarlo. A farcirlo con anni e anni di gestualità estremizzata e interiorizzata, con un carico plumbeo di etichette facciali e di personaggi introiettati. Così è stato. Il risultato è un film esilarante e intelligente. Che a volte vira troppo nel "benstillerismo". Sempre che, anche questo, sia un difetto e non il primo incentivo a correre al cinema.

(recensione di Elisa Lorenzini)


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