LO SCAFANDRO E LA FARFALLA
 

recensione

 
Ci sono film che, ridiscutendo l’elementare concetto di percezione spettatoriale, si configurano come pure esperienze. Lo sono in nome di caratteristiche molteplici, dalla natura e dagli effetti diversissimi. Tutte però sembrano convergere, come un fascio di linee incidenti, in un unico punto: il cinema come occhio della modernità, dell’ossimoro e della negoziazione; come luogo di una nuova concezione di sensibilità, o, appunto, di una nuova “esperienza”, che combina comunicazione e significato alla luce del suo statuto iconico. Lo ricorda Casetti in un libro fondamentale, “L’occhio del novecento”. “Lo scafandro e la farfalla” è uno di questi film. Capolavoro di forma e concetto, il terzo film di Julian Schnabel è un’opera chiave, un passaggio obbligato che testimonia le potenzialità del mezzo cinematografico,  
 
che interroga la dialettica scopica tra soggetto e oggetto (o tra spettatore e spettacolo) con l’ausilio di una prospettiva illuminante, di certo non nuova, è vero, ma interpretata in modo magistrale. La trama è nota, così anche la straordinaria genesi dell’omonimo libro, di cui il film è la naturale emanazione per immagini. Quello che impressiona, durante e dopo la visione, è la profondità teorica che raggiunge  
Schnabel facendo interagire i tre “occhi” del film: quello del protagonista, prigioniero di una sindrome locked-in e di un corpo-prigione; quello dello spettatore, che l’espediente della soggettiva sovrappone al primo in un commovente processo di mimesi; quello del cinema, con le sue virtù e le sue limitazioni (“Parli in asse, altrimenti non la può vedere!” dice l’infermiera ai visitatori di Jean-Dominique, dotato di un campo visivo coincidente proprio con il perimetro dell’inquadratura stessa). Perché “Lo scafandro e la farfalla” è un film sulla pesantezza del corpo (“Mare dentro” è, fortunatamente, lontano anni luce), un saggio sul linguaggio, un inno alla fantasia che supplisce i vuoti della realtà. Ma è, soprattutto, una serrata metafora meta-linguistica. La mdp si muove dinamica durante i sogni e i flashback, è statica e perennemente in flou durante le soggettive iniziali; la palpebra cucita, ripresa dall’interno, è una delle più belle immagini viste recentemente al cinema. Schnabel sottolinea costantemente la natura bifronte del suo film: il fuori campo del protagonista è il fuori campo dello spettatore, unico referente della sua voce-off e interprete esclusivo del mosaico delle sue visioni. Quello che ne deriva è un risultato sorprendente, in bilico tra diario immobile e continua peregrinazione nel mondo dell’irreale, luogo di scontro tra scafandro e farfalla, corpo/macchina e pensiero, immaginazione e memoria. Schnabel è miracoloso, e scivola nelle profondità dove prende vita l’idea stessa di Cinema.

(recensione di Lorenzo Donghi )


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