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di
Rosalinda
Gaudiano
(****)
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Già
dalle prime
note si capisce
che quella di
"Lettere
a Iwo Jima"
è una
campana che
suona a lutto.
E’ una
veglia funebre
in attesa del
sacrificio estremo.
Nessuno dei
soldati giapponesi,
chiamati a difendere
l’isola
strategica di
Iwo Jima, sperava
di far ritorno
a casa. L’unica
speranza, per
loro, era quella
di una morte
onorevole. La
seconda parte
del dittico
dedicato alla
battaglia di
Iwo Jima è
un film di guerra
senza la guerra,
dove gli scoppi
delle granate
si sentono di
riflesso all’interno
delle grotte
scavate nella
roccia, nel
cuore della
terra. Se in
“Flags
of Our Fathers”
c’era
una bandiera
qui c’è
una manciata
di lettere ritrovate
oggi in quegli
stessi luoghi,
una testimonianza
per rileggere
la tragedia
attraverso gli
occhi di chi
quella tragedia
la visse, per
rendersi conto
di come, al
di là
delle diversità
culturali, le
lettere |
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Spesso
si dice che
l’arte
si coglie virtualmente
nell’essenza
di sé
stessi, perché
è un
dono interiore,
e che, se lo
si possiede,
occorre coltivarlo
per riuscire
ad esprimere
al meglio il
proprio talento
artistico. Ebbene,
questa volta
Clint Eastwood,
con “Lettere
da Iwo Jima”
ha saputo cogliere
questa essenza,
creando un vero
capolavoro cinematografico,
facendo del
vero cinema,
con arte. Seconda
guerra mondiale,
isola di Iwo
Jima, quaranta
giorni di scontri
tra l’esercito
americano e
l’esercito
giapponese,
che vede quest’ultimo
in una condizione
di netta inferiorità
di forze, e
quindi destinato
a soccombere.
Grazie alla
tenacia del
generale Kuribayashi
(Ken Watanabe)
espressione
autorevole di
vero supporto
strategico e
morale, i soldati
giapponesi scavano
una rete di
caverne, al
fine di mettere
in atto una
strategia difensiva, |
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degli uni erano
in tutto e per
tutto identiche
alle lettere
degli altri.
Di nuovo il
cinema di Eastwood
è un
cinema di uomini,
di individui,
di singoli,
uguali perché
diversi. Amici,
nemici, eroi,
codardi, vincitori
e vinti sono
categorie prive
di senso quando
si sta per morire,
buone giusto
per i libri
di storia, scritti
da chi non c’era.
Il nemico, semmai
ci fosse, va
ricercato nei
piani alti dei
palazzi di potere,
di qualsiasi
colore si vestano
stano. “Flags
of Our Fathers”
e “Lettere
da Iwo Jima”
ci dicono che
l’animo
di un uomo è
grande nonostante
gli squallori
che è
costretto a
subire e a compiere.
Due film accomunati
dallo stesso
episodio ripreso
in campo e controcampo
ma due film
profondamente
diversi, sia
nello stile,
sia nei temi.
Più di
denuncia il
primo, più
introspettivo
il secondo.
L’unico
rapporto visivo
che li lega
realmente è
la famosa bandiera
a stelle e strisce
che si vede
sventolare per
un secondo in
lontananza,
un puntino indistinguibile
e anonimo, simbolo
fattivo delle
diverse priorità
dei due schieramenti.
In quel secondo
Eastwood riesca
a restituirci
del conflitto
una visione
completa a 360°
gradi, a unire
gli opposti
in un singolo,
strettissimo,
sguardo colmo
di partecipazione.
Dalla retorica
è quasi
impossibile
sfuggire nelle
pellicole di
guerra perché
forse la retorica
è insita
nella guerra
stessa, e chissà
se sia poi davvero
retorica. Eastwood
comunque non
indugia su alcuna
spettacolarizzazione,
non muove a
pietismo calcando
i toni del melodramma,
non gonfia i
cuori sventolando
vessilli, non
cerca lacrime
attraverso sentimentalismi
alla melassa,
peccando solo
per qualche
lentezza eccessiva
a circa metà
film. La follia
della guerra
sta sullo sfondo.
Al suo posto
c’è
il rispetto
infinito per
l’essere
umano, che è
tale anche per
le sue paure,
i suoi errori,
le sue debolezze.
Ken Watanabe,
il generale
Kuribayashi
nel film, ha
detto: tutto
è talmente
autentico che
mi ha fatto
piangere. E
anche vergognare
un po’:
in sessant’anni
nessun giapponese
aveva mai trattato
questa pagina
di storia così
dolorosa e toccante.
Tanto di cappello
caro Clint.
Alla notte degli
oscar faremo,
ancora una volta,
il tifo per
te.
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questo film!
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recensione del
film "Lettere
da Iwo Jima"! |
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per ostacolare,
fino all’ultimo
respiro, il
nemico statunitense.
“Lettere
da Iwo Jima”
non è
però
un film sulla
guerra, ma sugli
uomini che combattono
la guerra. E
Clint Eastwood
cristallizza
sullo schermo,
in scene e sequenze,
l’altra
faccia dell’uomo-soldato,
l’uomo
comune, costretto
in una gerarchia
militare, a
fare una guerra,
la guerra, in
difesa della
sua nazione.
Cade la maschera
del militare,
del più
fanatico e di
quello più
consapevole
delle proprie
responsabilità,
ed emergono
i sentimenti,
le aspirazioni,
le paure, i
visi dei familiari
lontani, s’instaura
un cameratismo
di trincea che
smorza l’angoscia,
e rende più
umana anche
la guerra. Saigo
(Kazunari Ninomiya),
soldato semplice,
di professione
panettiere,
è la
riuscitissima
caratterizzazione
dell’uomo
che non perde
mai la speranza,
che combatte
prima di tutto
contro il sentimento
di resa, che
parla della
guerra che lo
ha sottratto
alla sua famiglia,
come sbagliata,
inutile, e non
accetta l’ordine
estremo di togliersi
la vita con
onore, per non
cadere vivo
nelle mani del
nemico. Questi
soldati nipponici
nel film leggono
le lettere che
ricevono da
casa, le lettere
che inviano
a casa. Ed è
questo l’unico
modo di assaporare
ancora la dolcezza,
l’amore,
il sogno, ed
allontanarsi
dalla paura
di morire, o
al limite morire,
ma sostenuti
da un sentimento
di forza interiore
che il ricordo
esistente delle
persone care
restituisce,
soprattutto
in momenti estremi.
Gli elementi
del film si
fondono con
estrema naturalezza.
Interamente
girato in lingua
giapponese,
ciò conferisce
all’opera
il suo risultato
di compiutezza
dell’insieme:
i soldati giapponesi
parlano la loro
lingua, e la
lingua è
l’espressione
per eccellenza
di una cultura,
del pensiero
di un popolo,
della sua umanità,
non differente
dall’umanità
che Eastwood
ci ha proposto
in “Flags
of Our Fathers”,
girato in lingua
inglese. Il
colore delle
scene sul campo
di battaglia
è desaturato,
quasi in bianco
e nero. Acquista
tono alla deflagrazione
delle bombe,
quando il rosso
acceso del fuoco
illumina la
scena, altrettanto
fa macchia improvvisa
il rosso vivo
del sangue dei
cadaveri dilaniati
dalle mine.
“Lettere
da Iwo Jima”
non lascia spazio
alla retorica,
a falsi stereotipi
negativi o positivi
sulla guerra,
ma narra la
guerra così
com’è
nella sua essenza
mistificatrice
di strumento
indispensabile
all’uomo,
senza considerare
però
l’essenza
intima dell’uomo,
che deve, in
questo caso,
costruirsi l’immagine
del male nel
nemico che ha
di fronte. Qui
sta la grandezza
di “Lettere
da Iwo Jima”.
E’ Cinema
vero che, grazie
ad un maestro
come Eastwood,
anche in giapponese
riesce a comunicare
la forza di
un’umanità
universale.
E’ senz’altro
un cinema fatto
con un gusto
preciso, nel
rispetto di
quella tradizione
spettacolare
del cinema hollywoodiano
classico, che
Eastwood chiaramente
non rinnega,
ma che anzi
rende forte
ed attuale.
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