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recensione le
tre scimmie
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Non vedere, non sentire
e non parlare della
verità, arrivando
persino a negarla,
può agevolare
la possibilità
di cambiare la rotta
del destino cancellando
le miserie, le falsità
e le colpe commesse?
Giochiamo alle “tre
scimmie” con
Nuri Bilge Ceylan
(“UZAK”,
“Il piacere
dell’amore”,
“Nuvole di maggio”)
che, su uno scenario
di una Turchia plumbea,
ci regala il suo ultimo
lavoro “Le tre
scimmie”, vincitore
del premio per la
migliore regia al
61° festival di
Cannes. Un affresco
impietoso e struggente
sulle dinamiche imprevedibili
della psiche umana,
sulle situazioni emotive
che scatenano relazioni
complesse e violente
che coinvolgono una
famiglia di Istanbul
che vive il suo quotidiano
nella più monotona
tranquillità
e Servet (Ercan Kesal),
uomo politico ambizioso
e senza scrupoli morali.
Eyup (Yavuz Bingol)
e Hacer (Hatice Haslan)
sono rispettiva- |
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mente
padre
e madre
del
giovane
Ismail
(Ahmet
Rifat
Sungar).
La famiglia
vive
in un
piccolo
e modesto
appartamento
di Istanbul,
sbarcando
a stento
il lunario
con
il lavoro
di autista
che
Eyup
svolge
per
Servet,
ed il
lavoro
di cuoca
di Hacer,
mentre
il figlio
Ismail
passa
i suoi
giorni
in totale
apatia
sprofondato
nel
suo
letto.
Nella
loro
monotona
vita
familiare
irrompe,
in una
notte
come
tante,
la richiesta
di Servet
a Eyup
di |
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andare in
carcere al
suo posto,
per aver investito
ed ucciso
accidentalmente
un uomo. Eyup
accetta, e
da qui prende
alito la deviazione
che sconvolge
tutto l’insieme,
le vite stesse
dei personaggi,
che precipitano
in una situazione
di allontanamento
reciproco,
di falsa comunicazione
ed ignavia,
di tradimenti,
pur mantenendo
un legame
familiare
disonesto
e omertoso.
Una famiglia
che, pur di
sopravvivere,
nasconde ed
accantona
ricordi dolorosi
e scottanti,
come la morte
prematura
e non chiara
del secondogenito,
che però
aleggia senza
sosta nelle
loro coscienze
mortificate.
Ogni angolo
della casa
bracca gli
animi e restituisce
senza remore
ad ognuno
le rispettive
colpe. Nury
Bilge Ceylan
tratteggia
vite umane
immobili ed
amare che
usano il proprio
potere decisionale
per precipitare
nella debolezza,
nella nefandezza
dell’amoralità,
suggellando
un codice
muto ma condiviso
che porterà
ad una spaccatura
esistenziale
ed emotiva
della stessa
vita familiare.
La fotografia
di Ceylan
è verbo.
Squarci aperti
di un’Istanbul
avvolta da
un’atmosfera
vitrea, non
in grado di
coprire la
miseria della
vita, della
gente che
respira dentro
le case modeste,
nelle stanze
e nei letti
impegnati
di sogni impossibili
e di fantasie
che oltrepassano
solo la finestra
spalancata
sulla ferrovia
costeggiata
dal mare.
L’arte
comunicativa
di Ceylan
è affidata
più
alle spiazzanti
inquadrature
che ai dialoghi.
Agli spazi
pittorici
che raccontano
quella parte
più
o meno bella
di un mondo
esterno di
cui l’intimo
umano si nutre
e si appropria.
Affida la
parola agli
spazi architettonici
della sua
Istanbul,
naturali e
freddi, nella
notte che
scende ad
ammantare
di poesia
i quartieri
periferici
deserti ed
i pallidi
lampioni.
Nel gioco
ambiguo e
sinistro degli
sguardi, Ceylan
intesse lo
spazio filmico,
equilibrato
e coerente,
tra astrazione
e realismo,
rispettando
i tempi in
un rigore
compositivo
dell’opera.
Ne “Le
tre scimmie”
Ceylan è
fedele al
suo modo indiscusso
di fare cinema
che si riconosce
nello scorrere
parallelo
di due soggetti:
la drammaturgia
delle forme
ed il dramma
della vita,
intimamente
fusi nella
completezza
del racconto.
(di Rosalinda
Gaudiano
)
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tre scimmie"! |
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