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recensione le quattro volte
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Ritratto della vita agrestis, questo film di Michelangelo Frammartino si presenta come un esercizio di virtuosismo cinematografico e di preziosismo stilistico ma probabilmente destinato a pochi. La scena è quella della campagna calabrese, divisa tra i centri di Caulonia, Alessandria del Carretto e Serra San Bruno, tra Cosenza, Reggio Calabria e Vibo Valentia. Luoghi remoti, lontani dalla frenesia del mondo moderno, in cui il tempo sembra essersi fermato ad una dimensione extrastorica e dove gli uomini ci sono ma sono presenti solo come comprimari nel racconto che viene proposto allo spettatore. Infatti il titolo, "Le quattro volte", richiama appunto i quattro regni della vita secondo la dottrina pitagorica, ossia il regno umano, il regno animale, il regno vegetale e infine quello minerale, secondo una visione ordinata e |
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regolativa degli elementi fondamentali del ciclo della vita. E quindi all'uomo, in quanto tale benché essere dotato di intelletto, spetta solo un ruolo secondario, in mezzo a pascoli di capre, alle piante e ai boschi, alle cataste di
legno delle carbonaie fumanti a cielo aperto, e quant'altro. Il racconto di Frammartino vuole seguire le fasi
ricorrenti di questo ciclo naturale attraverso tutte le sue immedesimazioni materiali, dando |
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vita con le sue immagini pazienti e quasi mute alla descrizione moderna dell'idillio georgico dei nostri giorni; ma non c'è alcun esplicito intento celebrativo del microcosmo rurale, bensì prevale la ragione della descrizione di una semplice realtà immanentistica, fuori di qualsiasi trascendenza escatologica ma carica di un sapere millenario che si ripete ogni giorno e ogni stagione nelle sequenze regolari del ciclo della natura. Alcune immagini restano quasi indelebili nella loro diretta esposizione cinematografica e sono degne di essere menzionate: il pastore che accompagna ogni giorno le proprie caprette, saltellanti e felici nei pendii sassosi e nei campi, si attiene quotidianamente al rito magico di andare in chiesa a richiedere, quasi come una grazia, una manciata di polvere raccolta per terra (proprio così, la polvere che viene raccolta durante la pulizia dei pavimenti del luogo sacro!) che poi scioglierà ogni sera in acqua per berla come una medicina; il giorno in cui perde il suo fazzoletto di carta, con il suo prezioso contenuto, sarà proprio il giorno della sua morte. E poi la storia della capretta che si perde nel bosco, abbandonata dal gregge degli animali incuranti di lei: una lunga sequenza visiva segue il piccolo animale fino ad abbandonarlo anch'essa ai piedi di un altissimo e imponente abete. E poi, a seguire con studiato legame narrativo, la storia di questo abete, abbattuto dagli uomini, potato e levigato, e infine trasportato in paese per issarlo come albero della cuccagna al momento della festa di primavera. E tante altre storie ancora, tra saggezza rurale e superstizione, tra ricorrenza da calendario e manualità artigiana: storie tutte degne di essere ricordate ma soprattutto di essere viste nel silenzio della sala. Con l'intento non di aspettarsi una pellicola di facile lettura, ma una lunga e anche impegnativa carrellata di fotogrammi di un altro mondo, così lontano dalla nostra realtà abituale, cittadina o metropolitana quale che sia. E questo va inteso, alla fine, non come un limite ma, tutt'altro, come un grande merito del milanese Michelangelo Frammartino (ma di origini calabresi), capace di coniugare nelle sue "quattro volte" verità narrative e indubbie competenze di retorica, efficaci nel catturare con la sua macchina da presa momenti di fortissima suggestione espressionistica; un merito che anche l'esperto pubblico di Cannes gli ha saputo riconoscere al momento della presentazione del suo lungometraggio.
(di Michele Canalini )
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