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recensione lasciami entrare
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Il vampirismo è forse il tema più rappresentato nella storia del cinema. Da "Nosferatu" (1922) in poi è un susseguirsi di rinterpretazioni, dal comico al tragico, dal surreale all'horror al fantasy. Il vampirismo è divenuto simbolo, metafora politica, parallelismo socio-esistenziale (come nel bellissimo "The Addiction" di Abel Ferrara) fino a farsi sconclusionato e ammiccante spunto per pruriti pre-adolescenziali ("Twilight"). Il norvegese Alfredson sceglie invece il vampirismo per raccontare la solitudine del crescere, per rintracciare i vuoti che sempre di più separano mondo degli adulti e mondo dei ragazzi. Il suo è uno stile asciutto, meditabondo, quasi alla Van Sant ("Elephant" in particolare). Il rapporto tenero ma non mocciano tra Eli e Oskar, la malinconia di una neve troppo bianca e troppo pura, il surrealismo di perso- |
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naggi vicini al grottesco di un Roy Andersson ("You the living"). Tutto questo fa di "Lasciami entrare" un film inaspettato, solitario, indefinibile. Suggestivo spesso, claudicante a tratti. Il finale è trovatina adolescenziale, ma il senso profondo di sconforto, angoscia, solitudine che riesce a trasmettere è fatto notevole. Anche perché Alfredson non ricorre mai alla facile spettacolarizzazione del truculento, |
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né alla morbosità per gli aspetti più violenti e crudi. La macchina da presa si muove stanca contro i volti malinconici dei protagonisti, rimanendo a spiarne, con dolore, le multiformi e interminabili solitudini.
(di Mattia Mariotti)
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