LA TERZA MADRE
 

recensione la terza madre

 
Che dire?!? Non potevamo esimerci dal pallino nero anche se, considerate le ultime prove del regista e della di lui figlia in veste di performer, ci saremmo aspettati anche di peggio. Ovvio stiamo parlando di qualcosa da cui ci si aspetta talmente poco che anche il minimo bagliore nel buio è accolto come una conquista, al punto che anche un dialogo pronunciato in italiano corretto, un’espressione di Asia Argento dalla parvente naturalezza, un passaggio del montaggio non tagliato a casaccio con l’accetta, sorprendono favorevolmente. Sono elemosine sparse in mezzo ad un guazzabuglio demenziale e raffazzonato in cui trovano posto in ordine sconclusionato storie di streghe, leggende secolari, prodigi da magia nera, preti esorcisti e vecchi alchimisti belgi (soprattutto belgi!). Il coefficiente di intelligenza è sotto le suole, così  
 
come la cura tanto dei contenuti quanto della confezione. Una puntata di “Centovetrine” per intenderci possiede maggior sapienza in fatto di tecnica registica e impaginazione narrativa. “La terza madre” (ultimo della trilogia e bla bla bla) presenta continuamente soluzioni dozzinali da cineamatore di Super8 affrontate con approccio spartano e pochezza di mezzi e idee. Così apprendiamo che il sorgere a nuova vita della  
cosiddetta mater lacrimarum porta con se un’ondata di follia che investe Roma e che si esplica sul grande schermo in due figuri in campo lungo che fanno a pugni per un parcheggio (nulla di più di quello che succede normalmente) o in una madre che afferra cicciobello spacciato per suo figlio e lo getta nel Tevere; i festeggiamenti per la resurrezione di mater lacrimarum poi portano a raccolta a Roma tutte le streghe del pianeta, che per sineddoche vengono incarnate da quattro sgallettate uscite da una festa per halloween che arrivano alla stazione Termini e fanno linguacce ai passanti; a combatterle un’ Asia Argento come sempre sopravvalutatissima, come attrice, come donna (ma nessuno ha notato che è identica a Morgan?), come ribelle, quando ribelle non significa altro che mostrare le mutande, bere birra e fumare, qui in versione gibbonesca e spaesata, in possesso di insaputi poteri sovrannaturali. Il padre Dario intanto, tenta di tenere alto il nome, dando sfogo agli istinti primari, inondando il set di sangue, interiora, tette e culi, le une e gli altri per lo più rifatti (anche l’onnipotente mater lacrimarum ha le tette siliconate e forse muore per vergogna, forse per idiozia). Chissà magari chi ha fatto “Profondo rosso” e “L’uccello dalle piume di cristallo” non merita un trattamento simile, ma le sue ultime fatiche da “Il fantasma dell’opera” in avanti sono senza appello, in grado di mettere in discussione tutta la produzione precedente, forse dignitosa ma nulla di più. E suonano francamente inopportune tutte le giustificazioni che da più parti si cercano sui tempi che sono cambiati, sul modo di guardare che è cambiato, sulla società e sul cinema che sono cambiati. Qui ci troviamo di fronte ad un fenomeno simile ad un nuotatore che improvvisamente non sa più stare a galla o ad un ciclista che si dimentica come si sta in bicicletta. Tra le cose da salvare la citazione con Udo Kier che cominciò la sua carriera nel Dracula e nel Frankenstein di Andy Warhol e che mai – ne siamo convinti – avrebbe pensato di girare film più trash di quelli.


(recensione di Mirko Nottoli )

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