LA SCONOSCIUTA
 

la sconosciuta recensione

 
Una Trieste trasfigurata è la cornice di questo nuovo titolo di Giuseppe Tornatore: “La sconosciuta”. Una città che perde i suoi connotati oggettivi per divenire luogo di transizione, dove inutilmente nascondersi da uomini neri provenienti dal passato e da fantasmi di colpe mai espiate. Così è vissuto da Irena, ex prostituta di origine ucraina, l’approdo nella città di confine. Ma il suo spostarsi è un nomadismo di ricerca, che la porterà in casa di una famiglia di orafi in crisi, gli Adacher, in qualità di domestica. Lì conoscerà Tea, bambina fragile e bellissima, cui insegnerà a rispondere alla violenza con la violenza, perché porgere l’altra guancia è il motto di chi picchia per primo. La storia è contrappuntata dai ricordi di Irena, che riemergono casualmente, come flash inconsulti che squassano l’esistenza, che ossessionano come una terribile malat-  
 
tia. “La sconosciuta” non è però un film intimista. Ha invece i toni del thriller d’autore, con una sceneggiatura fatta di omicidi, segreti e nascondimenti, che esclude totalmente la denuncia della tratta delle prostitute dall’est perché, secondo il regista, «se si ha qualcosa da denunciare, al massimo si può andare alla procura della Repubblica». Questa è, dunque, la storia del tentativo di una donna martoriata dal-  
la vita di risollevarsi dal fondo, di trovare un senso al proprio combattere che non guarda in faccia a nessuno. I veri protagonisti di quest’opera non sono gli interpreti, tra l’altro tutti bravi da Ksenia Rappoport a Michele Placido, a Claudia Gerini, all’inossidabile Piera Degli Esposti. A tenere banco ne “La Sconosciuta” sono in realtà i colpi di scena, sostenuti dalle ispirate ma un po’ invasive musiche di Ennio Morricone. Tornatore sostiene di non essersi ispirato ad Hitchcock, ma ci permettiamo di dubitare: i rimandi sono espliciti e riconoscibili, e purtroppo a volte sanno di gratuito. Comunque nel complesso è un film girato con cura e con un intreccio degno di questo nome, che, nonostante più di una sbavatura e qualche barocchismo di troppo, testimonia una capacità di narrare fuori dal comune, capace di spostarsi con agilità dalla tensione alla commozione, senza la minima caduta di ritmo. I dialoghi, poi, rasentano quasi la perfezione. Una nota finale è doverosa per un grande interprete italiano, che qui impersona uno squallido portinaio dialettofono: è Alessandro Haber, un attore in grado di trasformare i ruoli più ristretti in manuali di recitazione.

(di Marco Santello )

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