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di
Francesco
Carabelli
(***)
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Due
fratelli e un
padre anziano.
Attorno a questo
triangolo si
avviluppano
le vicende di
“La famiglia
Savage”,
storia minima
ma potenzialmente
‘massima’
sul rapporto
fratello-sorella,
ma soprattutto
intorno alle
difficoltà
dell’affrontare
la vecchiaia
dei genitori.
Wendy (Laura
Linney), aspirante
drammaturga,
è un’impiegata
a New York;
vive con frustrazione
la continua
ricerca di sovvenzioni
per poter rappresentare
un suo lavoro
teatrale e,
nel contempo,
cerca di farsi
bastare la relazione
con un poco
attraente uomo
sposato. Jon
(Philip Seymour
Hoffman) insegna
drammaturgia
all’università
di Buffalo e
porta avanti
una vita fatta
di una storia
con una donna
polacca con
cui non si vuole
impegnare, malattie
psicosomatiche
e una pancetta
che si allarga
sempre di più.
Improvvisamente
la benestante
compagna del
padre, con |
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L’opera
seconda di Tamara
Jenkins (regista
nel 1998 de
“L’altra
faccia di Beverly
Hills) mette
al suo centro
ancora una volta
la famiglia.
Dopo l’analisi
dell’adolescenza
svolta nel primo
film la Jenkins
si occupa di
temi molto attuali
come la vecchiaia,
le malattie
senili e i contraccolpi
che questi fenomeni
hanno sulla
vita dei figli,
i quali, da
un giorno all’altro,
si vedono nella
necessità
di dover prestare
delle cure ai
propri genitori.
E’ questo
quello che accade
a John e Wen
Savage, qui
interpretati
da Philip Seymour
Hoffman (premio
Oscar per “Capote”)
e Laura Linney
(nominata due
volte all’Oscar),
i quali si trovano
di fronte alla
demenza senile
diagnosticata
al padre Lenny.
Nonostante il
passato i due
fratelli decidono
di prestare
aiuto al padre
(la cui convivente
è da
poco mancata)
trovandogli
una sistemazione
in una casa
di cura poco
lontana dalla |
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cui vive in
un’assolata
cittadina dell’Arizona,
muore e i due
fratelli si
trovano per
la prima volta
a doversi occupare
del padre, affetto
da demenza senile
e sempre più
difficile da
gestire. Comincia
così
la ricerca di
una casa di
riposo, tra
difficoltà
di spostamenti
e conflitti
irrisolti, che
porterà
Wendy e Jon
a compiere un
cammino di consapevolezza
e riavvicinamento.
Regista di “La
famiglia Savage”
è Tamara
Jenkins, già
autrice di “L’altra
faccia di Beverly
Hills”,
che ha presentato
questa sua opera
seconda al Sundance
Film Festival
e in un secondo
momento anche
a Torino. Adesso
questo prodotto
del cosiddetto
“Cinema
indipendente
americano”
approda nelle
sale italiane,
che in alcuni
casi hanno saputo
regalare soddisfazioni
a questo nuovo
filone produttivo
made in USA.
Difficilmente
però
questo successo
potrà
darsi per il
film della Jenkins,
che manca vistosamente
il bersaglio.
Se i due protagonisti
confermano la
bravura di sempre
(Laura Linney
in particolare,
che ricordiamo
straordinaria
in “L’esorcismo
di Emiliy Rose”
e “Mystic
River”),
regia e sceneggiatura
non trovano
l’alchimia
giusta e finiscono
per cadere nel
noioso e nel
già visto.
Ed è
veramente un
peccato, perché
una bella storia
sulla gestione
della vecchiaia,
condotta con
ironia e sensibilità,
sarebbe stata
bene accetta
da un pubblico
attento, soprattutto
in un panorama
cinematografico
affetto da giovanilismo
cronico. Eppure
l’ironia
qui non passa
e nemmeno una
visione nuova
del tema. Questa
storia di moderni
“Hansel
e Gretel”,
così
li definisce
la regista,
ha sì
radici autobiografiche
autentiche,
ma purtroppo
queste non travalicano
mai il confine
dell’esperienza
di vita, verosimile
e pacata fin
che si vuole,
ma francamente
troppo ordinaria.
Per cui alla
fine si ha la
sensazione di
aver visto una
storia come
un'altra, privata,
moderata ma
troppo banale
e trattenuta
per rimanere
memorabile.
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film "La
famiglia Savage"!
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casa di John.
La storia si
dipana mettendo
in luce tutte
le difficoltà
conseguenti
a questa decisione,
che va a confliggere
con la vita
lavorativa dei
fratelli: John
insegnante di
letteratura
e teatro all’università
é alle
prese con la
stesura di un
libro su Bertold
Brecht; Wen
scrive pieces
teatrali ed
è alla
costante ricerca
di qualcuno
che le dia il
suo appoggio
per metterle
in scena. A
contorno la
vita sentimentale
dei due fratelli
entrambi coinvolti
in relazioni
difficili a
causa di complicazioni
dovute a legami
precedenti del
partner o a
problemi legati
alla diversa
nazionalità.
La regista lascia
ampio spazio
all’ironia
e allo scherzo,
cercando di
sdrammatizzare
i temi trattati
e rendendo così
il film più
godibile. I
due attori protagonisti
sono molto bravi
nel realizzare
le intenzioni
della Jenkins,
e danno libero
sfogo alle proprie
capacità
attoriali, anche
se talvolta
i personaggi
sembrano stereotipati,
non convincendo
fino in fondo.
Non manca in
alcune scene
del film la
critica nei
confronti di
aspetti della
società
americana come
il razzismo
o lo sfruttamento
del dramma dell’11
settembre 2001,
attuato da coloro
che cercano
di vivere con
le sovvenzioni
concesse dalla
stato successivamente
a questo evento.
Temi ricorrenti
sono poi il
teatro e il
cinema, che
compare qui
sotto forma
di immagini
di film d’epoca.
La fotografia
è ben
studiata ma
molto classica.
Da segnalare
l’insistenza,
soprattutto
nella prima
parte, di inquadrature
che riprendano
i due fratelli
nello stesso
frame ad indicare
la solidarietà
vissuta in quei
momenti e il
forte vincolo
che li lega.
Un altro elemento
ricorrente è
il cielo ed
il colore azzurro
in genere, utilizzato
quale simbolo
di speranza,
ma anche come
elemento fantastico,
di sogno ed
evasione dalla
realtà
vissuta (nel
finale ritornerà
l’azzurro
del mare e del
cielo ma ora
la protagonista
ne è
parte a dirci
che quella speranza
è diventata
realtà).
Un film che
invita a riflettere
sul valore della
vita, sulla
sofferenza da
accettare, nonostante
tutto, per amore.
Solo questo
rende la vita
degna di essere
vissuta.
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