LA DUCHESSA DI LANGEAIS
 

recensione la duchessa di langeais

 
Singolare che Rivette torni, nella vecchiaia, proprio là dove aveva gridato, nella giovinezza, di non voler finire mai. Singolare che il suo cinema riprenda fedelmente quella “certaine tendance” tanto esecrata dai “Giovani Turchi” della Nouvelle Vague. Il cinema di Rivette di oggi è esattamente il “cinema degli sceneggiatori” di una volta (quanto odio, allora, per Aurenche e Bost), il cinema della ricercatezza, del preziosismo letterario. Un cinema teatrale, verboso, sganciato dalla realtà e dalla vita (dov’è finito il cinema per le strade di Paris nous appartient?). La Duchessa di Langeais è tratto dall’omonimo libro di Balzac, e ad esso non aggiunge nulla. Semplice trasposizione, semplice ritrattismo. Davvero sfuggono i motivi della scelta di Rivette, davvero si resta stanchi, di fronte alle sue immagini. È un esercizio  
 
di stile, è la senilità, ma è inutile. Lo stesso tema religioso (la protagonista “costretta” dall’amore infelice a donarsi a Dio) è sfumato, lontanissimo dall’epicità drammatica di un altro film di Rivette, La religieuse (1966). Così come le sottili ferocie di Balzac nel trattare il potere e il vuoto della società francese “restaurata”, vengono irrimediabilmente perse nel vortice di una mdp che si posiziona sempre troppo vicino ai perso-  
naggi, perdendo il resto. Rivette insiste in inquadrature che appaiono inutilmente preziose come gli stucchi che abbondano nei saloni settecenteschi in cui si muovono i protagonisti. Rivette finisce per imbalsamare il suo cinema in dialoghi trasudanti letterarietà, e artificio. La vita è altrove, e lontanissima. Esattamente come il suo cinema migliore.

(recensione di Mattia Mariotti )


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