LA BATTAGLIA DEI TRE REGNI
 
locandina la battaglia dei tre regni

recensione la battaglia dei tre regni

 
John Woo torna alle origini dopo la disastrosa parentesi hollywoodiana (un solo capolavoro, "Face off", il resto da dimenticare) e ritrova tocco, ispirazione e romanticismo che lo resero celebre, prima ad Hong Kong poi nel resto del mondo quale riconosciuto maestro di "action movie", inventore di uno stile che ha fatto proseliti. Ritrova le sue amate colombe bianche con cui ci regala un volo sull'accampamento nemico da urlo e un "mexican standoff" come ai bei tempi di "The killer" rivisto e aggiornato secondo l'epoca del racconto, con le spade al posto delle pistole (marchio copiato - tra gli altri - da Tarantino ma il brevetto si deve a Sergio Leone!). Torna in patria, in Cina, e torna al "wuxiapian", al genere "cappa e spada", torna cioč alla tradizione del cinema del suo paese e di se stesso. Riprende un vecchio progetto nel  
 
cassetto da quasi vent'anni: la trasposizione cinematografica del romanzo popolare "La battaglia dei tre regni" scritto quasi settecento anni fa sulla mitica battaglia delle Scogliere Rosse tra l'immenso esercito del primo ministro dell'imperatore, deciso a unificare la Cina e l'alleanza tra i due stati del sud, inferiori di numero ma più saldi e motivati. Una sorta di Iliade d'Oriente dove si mescolano epica,   recensione la battaglia dei tre regni
eroismo, amore e sacrificio. Realizza un kolossal di 4 ore ridotto a 2 e mezzo per il mercato occidentale. Quando si tratta di avventurarsi nella storia cinese bisogna andarci cauti perché è come immergersi in un pantano da cui è difficile uscire. Troppo vasta, troppo distante. Al contrario però di suoi illustri predecessori (vedi Zhang Yimou, Ang Lee o Tsui Hark), Woo, pur non rinunciando all'enfasi del suo linguaggio fatto di ralenty e dissolvenze incrociate, riesce a mantenere ben salda la rotta, sa quel è l'obiettivo principale e lo raggiunge grazie ad un impianto narrativo geometrico che non significa rigido ma solo nitido. A differenza di suoi illustri predecessori non si perde in mille estenuanti balletti coreografici, abbandona finalmente spadaccini volanti e frecce telecomandate imbevute di castronerie zen (elementi ricorrenti nel wuxia) prediligendo invece verosimiglianza, realismo e struttura. Che non negano il pathos bensì lo rafforzano perché non c'è pathos se non c'è comprensibilità. Perché anche la sequenza più spettacolare non potrà essere avvincente se non è motivata dal punto di vista drammaturgico. "La battaglia dei tre regni" in fin dei conti non è che una battaglia, ma condotta come fosse una partita a scacchi, con mosse e contromosse, sostenuta da strategie militari e colpi di genio degni del cavallo di troia di Odisseo (a differenza de "Il Signore degli anelli", anch'esso nient'altro che una battaglia ma di tattiche nemmeno l'ombra). Quando però gli eserciti arriveranno allo scontro frontale allora John Woo torna a fare John Woo, allora saranno fulmini e saette, sarà amicizia e onore, sarà gloria e sconfitta, sarà che l'aver fatto "Paycheck" con quel bietolone di Ben Affleck, non gli ha fatto dimenticare come si girano scene d'azione tese allo spasimo. Unica pecca: grande Tony Leung, ma Chow Yun-Fat dov'è?



(di Mirko Nottoli)


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