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recensione l'innocenza
del peccato
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Di questi tempi (al
cinema, ovviamente)
parlare di demistificazione
della borghesia significa
fare riferimento a
Claude Chabrol. Dopo
illustri predecessori
(Bunuel, Ferreri,
Godard) è ora
lui il cantore dell’inconsistenza
del sogno borghese,
tutto moine e scheletri
nell’armadio.
Profondo conoscitore
del mezzo, a quasi
ottant’anni,
Chabrol dimostra ancora
intelligenza (cinematografica,
ma non solo) da vendere:
fotogramma dopo fotogramma,
in ogni movimento
di mdp, in ogni singolo
stacco e raccordo.
Mi permetto, in tutta
onestà, di
spacciare questa affermazione
come un dato di fatto
che riempie gli occhi,
e non teme smentite.
D’altra parte
sarebbe ben diverso
affermare che, alla
luce di quanto detto,
“L’innocenza
del peccato”
diventa tout court
un film convincente.
Piuttosto prevedibile
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come
intreccio
(che
rivisita
un lavoro
poco
conoscuto
di Fleischer,
“The
Girl
in the
Red
Velvet
Swing”),
ellittico
ma lacunoso
nella
sintassi
registica,
l’ultimo
film
di Chabrol
alterna
pregi
e difetti
con
eccessiva
frequenza
e approda
a esiti
piuttosto
incolori.
Non
convincono
parecchi
fattori,
da interpreti
che
gigioneggiano
un po’
troppo
al ritratto
di un
cinismo
diffuso,
sbiadito
e di
maniera,
più
in |
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sintonia con
l’indolenza
blasé
che con radicali
nichilismi.
E la sceneggiatura,
di fatto,
non è
quel che si
dice un esempio
di perfetta
tenuta narrativa,
con un finale
“magico”
che ne acuisce
le perplessità
(se non altro
per la vezzosa
svolta meta-linguistica
dello sguardo
in macchina).
Il film è
di Chabrol,
e si vede.
Il ritmo apparentemente
sommesso,
l’analsi
psicologica
che scandaglia
gli individui
con indagini
profonde,
al limite
dello psico-poliziesco.
Lo smascheramento
della borghesia,
ma anche della
televisione,
grondante
“mostri”
che signorotti
arricchiti
non erano,
ma lo diventano
come i più
arrivisti
dei parvenu.
Pronti a tutto,
in un mondo
di ipocrisia
e apparenza
(la protagonista
“svela”
la falsità
del bluescreen
durante le
previsioni
meteo). Ma
tutto procede
senza ansie
di lezioni
morali. Il
film trasuda
infatti un’atmosfera
torbida, fortemente
sessuale,
intrisa di
ambiguità
e altamente
conturbante.
Così
i suoi personaggi:
lo scrittore
Charles, sua
moglie, la
star in erba
Gabrielle,
soprattutto
l’editrice
Capucine.
Difficile
scegliere
tra bene e
male, quando
lo scontro
si consuma
nell’imperfezione
dell’umano.
Impossibile
rifuggire
il desiderio
e redimersi
con sommessi
mea culpa.
L’individuo
di Chabrol
vive di dissidi,
di scissioni,
di dualità.
Lo testimonia
bene anche
il titolo
originale,
letteralmente
“Una
ragazza divisa
in due”,
la cui ammiccante
“traduzione”
non smentisce
il gusto nostrano
per le cantonate.
(recensione
di Lorenzo
Donghi)
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del peccato"! |
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