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L'ASSASSINIO
DI JESSE JAMES |
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Tra la realtà
e il mito scegli il
mito diceva John Ford.
Sceglie il mito Andrew
Dominik nel delineare
le gesta di Jesse
James il bandito,
fuorilegge, eroe,
salvatore, temuto,
ammirato, pistolero
infallibile, paladino
dei vinti, spietato
e giusto nel West
del 1882. Sono i suoi
ultimi giorni di vita,
prima di venire assassinato
dal codardo Robert
Ford del titolo, in
cui il passato si
riverbera in controluce
narrato dalla voce
onnisciente fuori
campo che parla col
senno di poi, dall’alto
della storia cha sa
come le cose andranno
a finire. Parla lenta
seguendo lo scorrere
lento della pellicola
su spazi sconfinati,
praterie, montagne
innevate, cieli aperti
che portano con sé
il senso d’infinito.
Stagliato su questi
scenari per contrasto
Jesse James è
un uomo solo. Ha 34
anni ma ne dimostra
dieci di più.
Parla poco, si muove
circospetto, etereo
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come
un fantasma
che
appare
e scompare,
silenzioso
mentre
tutti
intorno
parlano
di lui,
mentre
intorno
il mito
monta
tra
articoli
di giornale,
libri
d’avventura,
fumetti.
Ma il
mito
sta
altrove,
non
fa già
più
parte
di questa
terra,
cammina
accarezzando
le spighe
di grano
come
il gladiatore
sui
campi
elisi.
Un’iniziale
rapina
al treno,
girata
con
notevole
gusto
dell’immagine,
e l’azione
è
già
tutta
finita.
"L’assassinio
di Jesse |
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James per
mano del codardo
Robert Ford",
al di là
di quanto
si possa pensare,
è un
film di atmosfere,
di situazioni,
di psicologie
indagate con
accortezza
e rispetto
di quelle
che possono
essere le
contraddizioni
e le debolezze
umane, che
rifiuta manicheismi
ad uso e consumo
di facili
risposte.
E’ un
film storico
che si innalza
dalla cronaca
dei fatti
alla cronaca
delle suggestioni
facendosi
astratto,
irreale, denso
di simbologie
e immagini
eidetiche.
E’ un
film che si
specchia nel
suo protagonista
che si specchia
a sua volta
nell’interpretazione
di un emaciato
Brat Pitt,
piena di luci
e d’ombre,
statica ed
inespressiva
eppur capace
di restituire
un personaggio
carismatico
e spigoloso,
divorato interiormente
dalla malattia
e dall’inquietudine,
mito crepuscolare
e stanco che
medita la
morte e alla
morte infine
si concede.
I perché
e i percome
muoiono con
lui, a noi
rimangono
solo alcune
supposizioni
e la fama
che ancora
lo accompagna.
Vera o finta
che sia è
quello che
rimane. Il
film è
così:
due ore e
quaranta in
cui non succede
pressochè
nulla. Ma
un film che
sa parlare
al cuore,
che sa prendersi
i giusti tempi
e i giusti
spazi, estetizzante
ma mai vacuo,
ambizioso
ma non velleitario,
ridondante
forse ma senza
essere pretestuoso,
un film che
ha in sé
un profondo
senso del
cinema, nella
costruzione
delle inquadrature,
nella fotografia
usata in funzione
espressiva,
nella ricostruzione
d’ambiente
meditata,
in quel respiro
ampio che
pervade il
paesaggio
e che manca
a tante altre
pellicole
che vorrebbero
volare e invece
rimangono
miseramente
inchiodate
all’
hic et nunc.
L’unico
consiglio
che possiamo
dare è
questo: di
andare al
cinema e sedersi
in poltrona,
di non avere
fretta, di
rilassarsi
e lasciarsi
accarezzare
e trasportare
dal potere
delle sue
immagini.
(recensione
di Mirko
Nottoli
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