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Carcere. Luogo rimosso
dalla vita borghese.
Nascondiglio dei mali
e posto di una catarsi
ancora tutta da dimostrare.
Il regista esordiente
Alessandro Angelini
conosce bene l’ambiente,
anche se fortunatamente
non in qualità
di ospite coatto.
È stata, infatti,
un’esperienza
di volontariato nel
carcere di Rebibbia
ad offrire l’ispirazione
per “L’aria
salata”, presentato
in anteprima alla
Festa del cinema di
Roma ed accolto da
scroscianti applausi.
A Fabio, giovane educatore
dal carattere fiero,
viene assegnato un
nuovo detenuto appena
trasferito da un altro
penitenziario. Si
tratta dell’epilettico
Sparti, condannato
a trent’anni
per omicidio. Presto
Fabio scopre che lo
sconosciuto che gli
sta di fronte non
è niente di
meno che suo padre,
la cui mancanza è
stata per lui fonte
di grandi sofferenze
durante la crescita.
La storia |
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è
questa,
semplice
e tagliente:
un rapporto
da sempre
esistito
ma mai
sviluppato
che
tenta
di farsi
strada
in mezzo
ai rimorsi.
Due
vite
che
sbattono
contro
e portando
alla
luce
grovigli
di sentimenti
che
pungono
come
l’aria
salata,
latrice
di sensazioni
contrastanti,
al contempo
difficili
da metabolizzare
e fresche
come
il profumo
del
mare
mai
dimenticato.
“L’aria
salata”
rappresenta
effettivamente
un esordio
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convincente
per due motivi
principali.
Primo, l’efficace
ricostruzione
ambientale:
una Rebibbia
ricreata nel
penitenziario
dismesso di
Pescia che
difficilmente
sarebbe potuta
essere più
pregnante
e lucida.
Secondo, la
direzione
degli attori,
tutti bravi,
a partire
da Michela
Cescon, davvero
ineccepibile
nel ruolo
della sorella
Silvia, per
arrivare al
protagonista
Giorgio Pasotti,
che conferma
la sua bravura.
Ma merita
una parola
in più
la performance
di Giorgio
Colangeli
(Sparti),
che d’altra
parte gli
è valsa
il meritatissimo
premio come
miglior attore
a Roma: difficile
rintracciare
un’interpretazione
di una qualità
così
eccelsa in
qualche altro
film italiano
degli ultimi
dieci anni.
A tratti non
impeccabile,
invece, la
regia, che
insiste un
po’
troppo sui
primi piani
e in un paio
di momenti
mostra dei
raccordi non
proprio puliti.
L’impressione
complessiva
è comunque
positiva,
in particolare
riguardo agli
accenti drammatici
e alle scelte
figurative.
D’altronde
Angelini approda
al lungometraggio
dopo un excursus
di tutto rispetto:
diversi buoni
documentari
all’attivo,
esperienze
come aiuto
regista di
autori come
Calopresti
e Moretti,
nonché
un primo premio
al Festival
del Cinema
di Torino
con l’opera
“Ragazzi
del Ghana”.
Perfettibile
la sceneggiatura,
che sovente
cade nel clichè
(la lettera
bruciata,
le fotografie
ricomposte).
Ma confidiamo
che Angelini
saprà
depurare i
suoi prossimi
film dalle
sbavature
dell’opera
prima. Come
si dice, le
basi ci sono.
(recensione
di Marco
Santello
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salata"! |
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