L'ALBERO DELLA VITA
 

l'albero della vita recensione

 
Sedicesimo, ventunesimo e ventiseiesimo secolo sono le epoche nelle quali si svolgono le tre storie che si intrecciano in “L'albero della vita” di Darren Arnofsky. Il conquistador Tomas è incaricato di trovare la Fontana della Giovinezza per proteggere la Regina Isabella di Spagna da un nemico che ha giurato di vendicarsi di lei. Lo scienziato contemporaneo Tommy Creo sta cercando di scoprire una terapia per curare la moglie Izzi, colpita da un terribile cancro al cervello. Mezzo millennio dopo, lo stesso Tommy vaga nello spazio su una navicella a forma di bolla, cercando di trasportare l’Albero della vita (questa l’iconografia scelta, tra le tante, per rappresentare la fontana della giovinezza) nella lontana nebulosa di Xibalba. Secondo il mito Maya, raccontato da Izzi prima di morire, ad un certo punto Xibalba esploderà, facendo  
 
risorgere le anime presenti. In un certo senso, Tom ha trasferito l’amore che provava per la moglie verso l’Albero e spera che, portandolo nella nebulosa, potrà finalmente ricongiungersi a lei. La storia tripartita di “The fountain” è stata scritta dallo stesso Arnofsky – già autore di “?. Il teorema del delirio” e “Requiem for a dream” – ed è stata raccontata attraverso una struttura a scatole cinesi. Ciò che lega le tra storie è  
«l’eterna odissea di un uomo per salvare la donna che ama», una sorta di mito ancestrale declinato nei temi contemporanei dell’accettazione della morte e della ricerca della pace con se stessi. Il film ha due principali punti di forza: da un lato la bravura degli attori: principalmente, la novella premio Oscar® Rachel Weisz, moglie del regista, e Hugh Jackman (Wolverine nella saga degli “X-men”), qui molto più ‘in parte’ che nel recente “Scoop” di Woody Allen; in secondo luogo, convince abbastanza la ricerca figurativa. Il gioco delle forme circolari, l’uso del fuoricampo, la fotografia precisa e curata sono per lo più degne di nota. In particolare, le micro-fotografie di sostanze organiche reagenti (usate per rappresentare la nebulosa), del fotografo inglese Peter Parks, sono dotate di una non comune carica suggestiva. È per questi singoli elementi che al film dev’essere per forza data la sufficienza. Il risultato complessivo dell’opera lascia, però, molto a desiderare. L’estetizzazione che permea “The fountain” è spesso fastidiosa: il film è gonfiato da una pletora di scene madri, eccessive o, al contrario, scioccamente sussurrate, che rendono fasullo il procedere narrativo. Tutte collegate tra loro da un montaggio che vorrebbe essere originale ma che è, invece, solamente inefficace. Inoltre, i temi sono trattati in maniera confusa, sconnessa, disorganica e questo comporta che, invece che si crei un afflato mistico, semplicemente non si capisce quali siano i riferimenti culturali dai quali si è attinto: buddismo? Religioni precolombiane? Alchimia? Yoga? Tai-chi? Quando, dopo aver sentito parlare di Grazia ed essersi sorbiti una pappardella infinita sui miti Maya, si vede Tommy levitare in posizione di meditazione orientale, viene proprio voglia di uscire dal cinema. Abbiamo già scritto, nel nostro commento alla sesta giornata di proiezioni di Venezia 2006, che sembra di trovarsi di fronte ad una copia di “Solaris” rimaneggiata da un insegnante di Yoga in vena di filosofeggiare. Troppa carne al fuoco, troppa trascendenza alla moda e troppa presunzione artistica per un regista che, seppur abile, dovrebbe aver più rispetto per l’ABC della sintassi cinematografica. Scardinare le regole si può, ma bisogna saper maneggiare il materiale tematico molto meglio di così.

(di Marco Santello )

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