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È molto probabile
che ai più
Kyashan non dica niente.
Sappia però
la generazione dei
trentenni d’oggi
che Kyashan è
tratto da una serie
a cartoni animati
giapponesi, una di
quelle con le quali
essa è cresciuta,
di quelle che si è
marchiata a fuoco
nell’immaginario
di ogni bambino di
allora e lì
è rimasta,
dormiente, coperta
solo da anni seriosi
di impegni, scadenze
e frustrazioni varie.
Magari non lo si riconoscerà
a vedere il film (o
forse sì, ma
solo per un attimo,
quando all’improvviso
appare un caschetto
con una mezza luna
dorata sulla fronte,
solo un lampo che
penetra nella memoria,
squarcia qualche scatola
chiusa e arriva dalle
parti del subconscio)
ma basta poco, una
rapida ricerca su
internet, la sagoma
inconfondibile dell’eroe,
il suo costume, il
suo cane robotico
come compagno, le
prime note della sigla
in giapponese con
le pa- |
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role tutte
inevitabilmente
storpiate
quando le
si cantava…basta
un attimo
per ritrovarsi
a 5 anni con
un grembiule
come mantello
e un mondo
davanti che
si credeva
sommerso,
e invece è
lì
che risale
da profondità
abissali,
autorigenerandosi
a livello
esponenziale,
come un vaso
di pandora
benevolo accidentalmente
scoperchiato.
Di fronte
al film però
il miracolo
non si compie.
I cartoni
animati giapponesi
possiedono
diversi gradi
di lettura.
Non solo quelli
giapponesi;
quelli giapponesi
però
hanno la caratteristica
di nascondere
dietro una
facciata scanzonata
e fracassona
storie e morali
tragicissime.
I bambini
colgono solo
il livello
più
superficiale,
quello referenziale
(e per questo
li amano),
mentre crescendo
si |
può
comprende
anche tutto
il resto dell’ampio
sistema di
relazioni
messe in campo
(e per questo
possono essere
considerati
capolavori
- solo col
senno di poi
ho capito
che l’uomo
tigre è
una delle
storie più
tristi e commoventi
che esistano).
Bene. Kyashan
– il
film –
si sofferma
quasi esclusivamente
sui livelli
di lettura,
chiamiamoli
così,
secondi, col
risultato
che c’è
ben poco spazio
per il divertimento,
l’evasione,
l’immedesimazione
con l’eroe,
infantile
e genuina.
In una sola
parola: Kyashan
non è
un film per
bambini. Le
tematiche
trattate:
futuro apocalittico,
regimi totalitari,
la minaccia
del terrorismo,
la guerra,
la clonazione
quale traguardo
per sconfiggere
la morte.
Il tono: cupo
e pessimistico.
La morale:
che l’odio
genera odio
e che noi
siamo nati
per odiare.
Peccato perché
l’inizio
lasciava ben
sperare, grazie
ad un racconto
mitopoietico
che sapeva
tessere ottimamente
trame tra
ellissi, iperboli,
suggestioni
visive, scenografie
avveniristiche
tra il film
e il cartoon,
sentimenti
archetipi
maneggiati
con antiretorica.
Poi inspiegabilmente
il marchingegno
si rompe cedendo
all’irrazionale,
all’illogico,
ad un brodo
che si allunga
oltre i confini
di guardia,
all’irrompere
della solita
antiutopia
con annessi
deliri di
onnipotenza,
del solito
uso massiccio
di effetti
speciali computerizzati
che ancora
una volta
sembrano cercare
di coprire
buchi di una
sceneggiatura
che sfugge
dalle mani
piuttosto
che essere
funzionali
alla medesima
(un parallelo
lo si potrebbe
fare con “I
guardiani
della notte”,
il film russo
della scorsa
stagione).
Macchinoso,
confuso, prolisso.
Eroe senza
eroe. Cattivo
senza cattiveria.
Giapponesi
troppo giapponesi.
Del vecchio
Kyashan della
nostra infanzia,
bello, aitante
e fascinoso,
nemmeno l’ombra.
E questo è
l’errore
più
imperdonabile.
(di Mirko
Nottoli
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