IO NON SONO QUI
 

recensione Io non sono qui

 
Dopo “Lontano dal paradiso” a Todd Haynes sono state date credenziali da grande autore e, così, l’aspettativa sui suoi film è cresciuta sempre di più. Nonostante ciò, la sua ultima fatica non sarebbe mai entrata in competizione alla sessantaquattresima edizione della Mostra di Venezia se non fosse stato per il cast che è stato pronto a sfoggiare: Heath Ledger, Christian Bale, Richard Gere, Cate Blanchett, Julianne Moore, Charlotte Gainsbourg, Michelle Williams. Non si bada a spese, bellezza! Ed è molto indicativo che all’interno del pressbook consegnato alla stampa nell’elenco dei nomi del cast artistico non sia citato il bravo Marcus Carl Franklin, ragazzino di colore che nel film ha la stessa importanza interpretativa e narrativa degli altri. In effetti sono due i motivi che potrebbero spingere a vedere questo film. Il primo sono gli  
 
attori, senza dubbio in parte. Il secondo sono le musiche, magistralmente curate da Randall Poster e Jim Dunbar. Ma che cosa racconta il film? Il film parla di Bob Dylan. Meglio, parla di un Bob Dylan immaginario, reinterpretato, rivisto in chiave personale, come fosse un origami esploso e poi ricomposto. La figura del cantante viene smembrata in sei diverse personalità e ad esse viene associata una storia diversa. C’è Arthur  
- l’anima poetico simbolista - che viene intervistato e poi accusato di corruzione e sovversione. C’è Robbie (Ledger), divo del cinema che s’innamora di una pittrice francese. C’è Jude (Blanchett), figura androgina aggressiva e strafottente. C’è Billy (Gere), cowboy solitario. E tanti altri… sei personaggi in cerca d’autore, molti hanno detto. Ma verrebbe da dire sei personaggi in cerca di una regia sensata. Sei storie che si intrecciano e si sovrappongono; flash parziali e frammentari tenuti assieme da un montaggio che, invece di fare da collante, disordina e confonde. Pieno di frasette ad effetto e venato da una supponenza molto accentuata (questa sì, tutta da festival) il film manca il bersaglio. Tentando l’originalità sfocia nello schematismo, disegnando dei tipi stereotipati che, anziché testimoniare la poliedricità del personaggio, ne seppelliscono la profondità. Inoltre, la trama, così spezzettata, si sfalda in pochissimo tempo ottenendo un effetto di distacco dal girato che, purtroppo per Haynes, non era affatto voluto. Anche il copione non convince; i dialoghi sono di quelli che devono essere ‘cool’ per forza e quindi sanno di falso, di artificioso. E poi è lungo, troppo lungo (2 ore e un quarto). Comunque sia, il film, pur non riuscito, è una grande prova d’attori e un modo per ricordare (soprattutto attraverso le canzoni) un artista che ha fatto epoca e di cui, bisogna dirlo, dare un’immagine convincente è un’operazione ai limiti dell’impossibile. Onore delle armi a Haynes. E pacca sulla spalla ai critici ex capelloni che hanno ritrovato parte della loro giovinezza con questo film.

(recensione di Marco Santello )

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