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di
Marco Santello
(***1/2)
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Prendere
o lasciare,
amare o odiare,
rimanere estasiati
o uscire dalla
sala. Niente
vie di mezzo
per l’ultimo
titolo di David
Lynch, “INLAND
EMPIRE”.
Se qualcuno
pensava che
“Mulholland
drive”
fosse l’emblema
dei film pretenziosi,
che costringono
lo spettatore
a fare a meno
del senso logico
per approdare
ad una versione
ampollosa di
arte astratta,
non sa cosa
lo aspetta questa
volta. Sì,
“INLAND
EMPIRE”
rappresenta
un vero punto
di maturità
dello sperimentalismo
lynchiano, la
normale evoluzione
della visione
allucinata che
da tempo il
cineasta coltiva.
Ma è
un’esperienza
che bisogna
accettare così
com’è,
da cui lasciarsi
maciullare senza
avanzare rimostranze,
senza pretendere
di trovare il
famigerato bandolo
della matassa,
se non nelle
sensazioni brutali
dell’incubo.
E l’incubo,
in quanto tale, |
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Dimensioni
parallele, andamenti
spazio/temporali
ciclici, universi
che si sovrappongono,
deliri onirici,
paradossi escheriani,
scambi d’identità,
sogni che sconfinano
nella realtà
e viceversa,
lo zampino immancabile
del maligno.
Girare un film
non è
mai stato così
facile. David
Lynch ha trovato
la gallina dalle
uova d’oro
e l’uovo
ovviamente è
quello di Colombo:
non servono
più trame,
sceneggiature,
copioni da scrivere
e mandare a
memoria. I suoi
sono incubi
e negli incubi
tutto è
ammesso e concesso.
Da “Strade
perdute”
in avanti egli
ha messo a punto
un meccanismo
tale da permettergli
di non rimanere
vincolato ai
concetti passatisti
di verosimiglianza,
di senso compiuto,
di rapporti
di causa/effetto.
Se ciò
non bastasse
è arrivata
anche la tecnologia
a facilitargli
ulteriormente
la vita, che
col digitale
si abbassano
i costi e si
ha più |
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rifugge il logos
e si incarna
nel mithos,
regolato da
infrazioni e
sovrapposizioni,
che fa della
crasi delle
immagini l’unico
sentiero interno
veramente rintracciabile.
Materia fertile
per gli studiosi
del rapporto
fra cinema e
psicanalisi,
il film sarà
uno spasso anche
per i semiotici
e potrebbe diventare
uno dei terribili
rompicapi in
cui si infilano
i tesisti del
DAMS. Risulta,
quindi, quanto
mai difficile
poter riassumere
il contenuto
del film. Diciamo
soltanto che
la storia racconta
di una giovane
attrice che
si trova a recitare
in un remake
di un vecchio
film polacco,
mai portato
a termine a
causa della
morte improvvisa
dei componenti
del cast. E
racconta di
una strana vicina
di casa che
predice infausti
accadimenti,
di una strana
sit-com interpretata
da attori mascherati
da conigli,
di baci saffici,
di saltimbanchi
orrorifici,
di cacciaviti,
di scimmie grottesche,
di macchie di
ketchup che
sembrano sangue.
Parla dell’esperienza
multidimensionale
dell’incubo,
resa attraverso
tutti gli strumenti
a disposizione
di un regista;
dai piani ravvicinati
agli intrecci
di flashback
e flashforward,
dallo svelamento
della finzione
cinematografica
all’uso
insistito del
fuoricampo come
elemento di
significazione.
Il tutto girato
tra Los Angeles
e Dotz, procedendo
giorno per giorno
senza un disegno
sistematizzato
in via definitiva
e lasciando
un congruo spazio
all’improvvisazione.
Dunque in “INLAND
EMIPRE”
(rigorosamente
scritto tutto
in maiuscolo)
vengono capitalizzate
tutte le passate
esperienze del
cinema dell’inconscio
- da Buñuel
a Hitchcock
- per convogliare
un senso di
oppressione
kafkiana che
fatica ad andarsene.
Il tutto accompagnato
dalla grande
colonna sonora
di Badalamenti
e reso possibile
da un cast davvero
encomiabile,
composto, tra
gli altri, da
Laura Dern,
Harry Dean Stanton,
Jeremy Irons
e Julia Ormond.
Un flusso (di
coscienza) da
cui lasciarsi
trascinare,
che aggiunge
un tassello
all’infinito
percorso di
scoperta del
Reale, che per
Lynch è
intermittente
e contaminato,
almeno quanto
metadiscorsivo.
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Empire"!
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agilità
di manovra.
E se la qualità
video non è
delle migliori
tanto meglio,
darà
ancor di più
l’idea
di una scelta
estetica ben
precisa sottesa
alla causa.
Il resto non
importa: un
primo piano
stretto deformante,
un racconto
sconnesso, la
ripresa di spalle
di un uomo che
si perde nel
buio di un corridoio,
una donna che
sghignazza,
lo stesso uomo
che riemerge
dal buio ritrovandosi
nella Varsavia
innevata del
1955. Ha senso?
No, ma qualcuno
glielo troverà.
Tra incubi,
sonni della
ragione, buio
della mente,
l’aldilà
e l’aldiqua,
film nel film,
lo spettro di
onanismi intellettuali
possibili è
completo, roba
con cui i cinefili
alternativi
dell’ultima
ora vanno a
nozze, quelli
che cioè
io Lynch lo
adoro, quelli
che cioè
per me lui è
un genio, quelli
che cioè
il metalinguaggio
cioè
in ambito semiologico
cioè
Freud, cioè
hai capito no?
Non è
affatto un territorio
vergine quello
dell’inconscio.
Altri prima
di Lynch ci
si sono avventurati
e forse già
esaurirono gli
argomenti. Si
citi tanto cinema
surrealista
e non se ne
parli più!
Ma nessuno forse
l’ha sfruttato
con tanta impudenza
come l’autore
di “Cuore
selvaggio”
sta facendo,
raggiungendo
con “Inland
empire”
il cosiddetto
punto di non
ritorno. Film
facile quanto
furbo, che cerca
il consenso
del pubblico
nel mostrarsi
compiacente
e fintamente
disturbante,
che affabula
lo spettatore
facendolo sentire
profondamente
intelligente
nel tentare
di decriptare
ciò che
in realtà
non può
essere decriptato,
perché
non c’è
nulla da decriptare
in questo universo
oscuro del genio
all’acqua
di rose. Se
si vuole un
vero incubo,
che non cerca
le assoluzioni
di nessuno né
facili scappatoie,
si vada a ripescare
“Eraserhead”
e lo si paragoni
a quest’ultimo
lavoretto svogliato
e inconcludente,
fasullo e disonesto,
monumentale
solo nella durata,
partorito col
minimo sforzo
di cuore e cervello.
Dura tre ore,
ma avrebbe potuto
durarne 20 o
5 minuti. Anche
su “Mulholland
drive”,
forse (e dico
forse), si sarebbero
potute muovere
le medesime
accuse. Solo
che “Mullholand
drive”,
pur all’interno
dell’illogicità
della trama,
presenta una
struttura narrativa
ben determinata
finalizzata
a mantenere
una tensione
drammatica costante.
E ci riesce
e forse è
per questo che
può considerarsi
un capolavoro.
In “Inland
empire”
invece il gioco
non solo è
smaccatamente
fine a se stesso,
ma quel che
è peggio
è che
Lynch comincia
pure a ripetersi,
nei temi, nelle
riprese, nei
meccanismi a
cui affidare
la sorpresa,
denunciando
mancanza di
idee e crisi
d’ispirazione
non più
solamente supposte.
Ovvio, Lynch
è un
maestro in grado
di creare inquietudine
anche solo riprendendo
uno che mescola
una tazzina
di caffè,
ma dura l’attimo
di un abbaglio,
dopo di che
non rimane nulla,
solo noia e
un po’
di fastidio.
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