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INDIANA
JONES E IL REGNO DEL TESCHIO
DI CRIS.. |
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A
diciannove anni
da "L'ultima
crociata",
Henry Jones
Jr., per gli
amici Indiana
Jones, ritorna
nelle sale di
tutto il mondo
con il nuovo
capitolo della
saga dal titolo
"Indiana
Jones e il regno
del teschio
di cristallo".
Il fantastico
trio Spielberg-Lucas-Ford
si riunisce
per la quarta
volta riportando
sullo schermo
uno degli eroi
di celluloide
più carismatici
di sempre: pochissimi
sono riusciti
a resistere
al fascino di
quest'archeologo
dallo spirito
avventuriero,
sin da "I
predatori dell'Arca
perduta",
il capolavoro
da cui ventisette
anni fa nasceva
il mito di Indy.
Avevamo lasciato
Indiana Jones
a cavalcare
verso il tramonto
dopo l'ennesima
impresa: difendere
il Santo Graal
dalle grinfie
dei nazisti.
Lo ritroviamo
quattordici
anni dopo, in
piena guerra
fredda, a vedersela
coi russi dell'ambiziosissima
Irina Spalko
(Cate Blanchett)
nel sud |
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Si
potrebbero fare
tante riflessioni
intorno al nuovo
capitolo di
Indiana Jones.
La prima potrebbe
essere: a chi
si rivolge oggi
Indiana Jones?
Qual è
il target di
pubblico che
vuole colpire?
I teenager di
oggi, quelli
che dall’ultimo
Indiana Jones,
19 anni fa,
magari non erano
ancora nati
e forse neanche
sanno chi è,
o i teenager
di ieri, quelli
che se lo ricordano
bene perché
l’hanno
vissuto in prima
persona, che
oggi hanno i
loro 35 anni
o giù
di lì?
E quindi: Il
Regno del Teschio
di Cristallo
si configura
come semplice
operazione nostalgia
o come il tentativo
reale di fare
“quel”
tipo di film,
“quel”
tipo di cinema,
in chiave contemporanea,
adeguandolo
agli standard
attuali? Il
rischio implicito
in operazioni
di tal fatta
è quello
di scontentare
tutti, semplicemente
perché
i trentenni
d’oggi
non hanno più
15 anni e i
quindi- |
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degli Stati
Uniti. Scampato
ai nemici e
tradito dal
(falso) amico
Mac, Indiana
viene messo
sotto torchio
dalle autorità
americane. Ormai
inviso alla
CIA, perde la
cattedra all'università
e medita il
trasferimento
in Europa, ma
basta che il
giovane Mutt
Williams (Shia
LaBeouf) gli
metta sotto
il naso una
mappa collegata
alla leggenda
del teschio
di cristallo
di Akator perché
la caratteristica
fedora e la
fedele frusta
vengano tirate
fuori dalla
valigia, pronte
per una nuova
avventura, che
stavolta avrà
come palcoscenico
il Perù
e la mitica
El Dorado, la
città
d'oro. Indiana
dovrà
vedersela al
solito con trappole,
scazzottate,
serpenti, tradimenti.
Nonostante qualche
annetto in più
sulle spalle,
il professor
Jones non sfigura
affatto tra
i vecchi pericoli,
soprattutto
se può
contare sull'aiuto
di vecchi amici
come Marion
Ravenwood (Karen
Allen) ripescata
direttamente
da "I predatori".
Le adrenaliniche
scene d'azione
sono un marchio
di fabbrica
della serie,
l'ironia con
cui il professor
Jones le affronta
pure, non manca
nemmeno l'ormai
classica sequenza
della mappa
sulla quale
una linea rossa
segue gli spostamenti
del protagonista
per il mondo.
Lungi dal manierismo,
che pure sarebbe
autoreferenziale,
Spielberg dirige
quindi secondo
i suoi canoni,
ossia quelli
del maestro
della settima
arte. Il film
si distingue
per l'assoluta
coerenza con
gli anni in
cui è
ambientato,
dalla cura nei
costumi alla
rappresentazione
delle paure
americane tipiche
di quegli anni.
Altro punto
a favore: non
è mai
facile trattare
personaggi importanti
come Indiana
Jones, anche
se è
un tuo personaggio,
e soprattutto
accontentare
certe aspettative.
Ebbene, crediamo
proprio che
Spielberg sia
riuscito nel
difficile compito
di non far rimpiangere
"I predatori
dell'Arca perduta".
Anche dal punto
di vista puramente
visivo nulla
da eccepire,
e non potrebbe
essere il contrario.
Emozionante
l'ingresso in
scena di Indy:
prima il cappello,
poi l'ombra,
solo alla fine
l'inquadratura
diretta, a simboleggiare
la grandezza
del personaggio,
riconoscibile
anche dalla
silhouette.
Memorabile la
sequenza della
fuga dall'esperimento
atomico, così
come non sfigurano
le scene di
inseguimento
e il concitato
finale, con
tanto di sorpresa
tutta spielbergiana.
Capitolo attori.
Confermata l'identità
Harrison Ford-Indiana
Jones, tanto
che si è
scelto, su pressione
dello stesso
Ford, di far
invecchiare
anche Indiana,
in modo da rafforzare
quest'identità
e rendere il
tutto più
credibile. Bravi
anche i comprimari,
da LaBeouf in
versione impomatata
al gradito ritorno
della sempre
affascinante
Allen, sino
all'algida interpretazione
della Blanchett,
il cui personaggio
meritava forse
un po' di approfondimento
in più.
In conclusione
"Indiana
Jones e il regno
del teschio
di cristallo"
si appaia certamente
a "I predatori"
fra i capolavori
del cinema d'avventura.
Un film capace
di appassionare
e tenere col
fiato sospeso
nonostante segua
il plot dei
tre predecessori
e che tratta
come si deve
il mito di Indiana
Jones. Grandissimo
merito ai tre
moschettieri
Lucas (si parla
poco di lui,
ma c'è)-Spielberg-Ford
e, se l'andazzo
è questo,
arrivederci
al prossimo
capitolo!
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film "indiana
jones e il regno
del teschio
di cristallo"!
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film "indiana
jones e il regno
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cenni d’oggi
sono abituati
a ben altro
(a proposito:
a cosa sono
abituati i quindicenni
d’oggi?).
Tuttavia, se
dopo la visione
del film alcune
di queste domande
possono trovare
risposta, ce
n’è
un’altra
che s’impone
soverchiandole
tutte: perché?
Va detto che:
nessuno conosce
Indiana Jones
meglio di Steven
Spielberg e
nessuno forse
sa “fare”
film meglio
di Steven Spielberg.
Si uniscano
le due cose
e si traggano
le conclusioni.
L’entrata
in scena di
Indy è
da manuale,
con il senso
dell’attesa
e l’uso
della sineddoche
in funzione
mitopoietica.
Idem l’uscita
finale, simbolica
quanto basta,
con quel voler
dire e non dire,
alludere e dichiarare
nello stesso
tempo il contrario.
Harrison Ford,
nonostante i
65 anni, regge
ancora perfettamente
il ruolo, è
credibile e
convincente,
come se il tempo
non fosse passato.
Il poveretto
si sarà
sfondato per
mesi in palestra
ma con cappellaccio,
frusta e divisa
d’ordinanza,
l’iconografia
è quella
che ben conosciamo.
Bene anche tutti
i comprimari,
da Shia LeBeouf
alla rediviva
Karen Allen,
bene, nonostante
qualche lungaggine
e inseguimento
di troppo, i
tempi, le battute,
l’intreccio,
il consueto
e dosato mix
di comicità
e avventura,
di storia e
leggende sovrannaturali.
Spielberg cita,
da “Il
selvaggio”
a “E.T.”
a Indiana Jones
medesimo, sostituisce
i nazisti coi
russi, mantiene
intatto lo spirito
della saga.
Quello che tira
fuori è
un prodotto
cosiddetto “all’altezza”,
che si affianca
ai tre capitoli
precedenti e
non sfigura,
sotto tutti
i punti di vista,
al loro confronto.
Ma proprio qui
torna, prepotente,
la domanda:
perché?
Perché
attendere 19
anni per raccontare
un’ avventura
che a conti
fatti non è
che una tra
possibili infinite.
Perché
aspettare 19
anni quando
la si sarebbe
potuta raccontare
19 anni fa (o
non raccontarla
affatto)? Perché
aspettare 19
anni per poi
fingere che
gli anni non
siano passati,
né dentro
né fuori
lo schermo.
O meglio: a
parole sono
passati, infatti
l’azione
si svolge nel
1957, ma nei
fatti Indy salta,
combatte e spara
come se fosse
trascorso nemmeno
un giorno e
allo stesso
modo Spielberg
gira come se
“Matrix”
non fosse mai
esistito. Perché
dunque attendere
19 anni per
poi ignorarli
garbatamente,
perché
attendere 19
anni se questo
periodo non
ha maturato
nessuna riflessione
sul personaggio,
sul tempo, sul
cinema, non
ha partorita
nessuna parola
risolutrice.
Il problema
di “Indiana
Jones e il regno
del Teschio
di Cristallo”
è che
non dice nulla,
non aggiunge
nè toglie
una virgola
a quanto già
sapevamo e a
quanto ci aspettavamo
di sapere. La
risposta più
semplice e più
banale, più
prosaica e anche
più meschina,
quella che,
complice la
delusione, di
primo acchito
viene in mente,
è che
è facile
quando le idee
scarseggiano
andarne a recuperare
di già
costituite,
fare cassa andando
a rinverdire
i fasti di un
personaggio
mitico facendo
leva sull’
effetto nostalgia
dei tanti che
l’hanno
amato. Guerre
Stellari, Rocky,
Rambo, Die Hard.
Da questa prospettiva
diventa fastidioso
anche l’uso
reiterato che
si fa del noto
tema musicale:
appioppato lì
come timbro
di autenticità,
non si sa come,
è sempre
lo stesso ma
suona falso
e stonato. Tutto
ciò sarà
vera gloria?
Non sarebbe
forse meglio
capire una volta
per tutte che
certi successi
sono legati
ad un particolare
momento storico
e che solo lì
trovano la proprio
ragione di esistere?
Che riproporli
pedissequamente
porta loro più
danni che benefici?
E che, al di
là di
un’infima
operazione di
mercato a cui
non vogliamo
credere, è
inutile se non
si intraprende
una riflessione
sui tempi e
i gusti che
cambiano, che
ne possa legittimare
il ritorno?
Tra tutti, l’unico
in tal senso
ad averci provato
è stato,
forse, e forse
paradossalmente,
Die Hard (anche
Rocky ma l’ha
fatto male).
Attraverso la
dialettica tutta
contemporanea
tra analogico
e digitale,
è stato
l’unico
ad aver tentato,
a suo modo,
un’ analisi
delle ragioni
del suo essere
(ed esserci)
oggi e dell’essere
del Cinema oggi,
d’azione
e non solo.
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